Ogni cosa col suo nome
I Jesus and Mary Chain hanno scelto per questo capolavoro epico il nome che piu’ straordinariamente spiega la storia della loro musica e la storia nella mia vita della loro musica.
Se questa chiarezza fosse un dono comune, non starei qui a crucciarmi di fronte allo schermo vuoto di un laptop (I’ve never thought I’d say those words - cit.) per spiegarmi cosa manchi alla serie di concerti che infilerò nel prossimo mese: dEUS, Sigur Ros, Lemonheads, Lightining Bolt, Nouvelle Vague e Mercury Rev (ma nemmeno se me lo fossi sognato, tre anni fa), tenendo fuori i Cansei de Ser Sexy perché il 27 ottobre (omissis), I Ladytron perché al Lux e i Thievery Corporation perché accavallati ai dEUS, e al bivio ho scelto Barman al primo nanosecondo di dubbio, potrebbero infilarsi i Porcupine Tree (nientepopodimento) ma essendo che si tratta di andare ad Almada durante la settimana, si traballa; cosa manchi a poco meno di 30 gradi il 28 settembre; cosa manchi ai film che ho visto e vedró in questi giorni (maratona Orson Welles oggi pomeriggio); cosa manchi allo Sporting per perdere partite come quella di ieri sera.
È che io avevo sempre sognato di raccontare le cose, di dipingere la realtà dandole armonia, romantico decadentismo, sforzi giganteschi in gesti dettati da sentimenti puri, i soli degni di essere definiti umani, anche mentendo se fosse stato necessario, per dare il coinvolgimento della Nadais, o di Nuno Ribeiro, quando parla di calcio.
Per spiegare, per esempio, perché la marmellata ha un cuore piu’ grande di quello della cioccolata.
Cos’è allora, che m’è successo, dove ho smarrito la voglia, la forza, soprattutto il coraggio di raccontare le cose? Di decorare quel che sento e quel che vedo? La chiarezza evidente, pepata, intrigante, eloquente di somme frasi incidenti? Ho smarrito troppe lezioni di quella scienza, della quale nessuno, colpevolmente, si cruccia, che studia la spiegazione dei concetti.
Non vorrei subirne troppo le conseguenze, lo so che vivendo in Portogallo uno smette di cercare logicità o causa-effetto negli eventi, ma mi sono interrogato a lungo per esempio, ieri sera, su cosa potessero dirsi una coppia di innamorati che sedevano due tavoli dopo il mio, in un locale buio e bolscevico, e che scorgevo tra le fessure che gli astanti del lato creavano naturalmente discutendo tra di loro: si baciavano, si schiaffeggiavano, si ribaciavano, lei cercava di baciarlo, lui la schivava, poi lo schivava lei e poi si ribaciavano. Continuando a parlarsi. Complicato, discutibile, intricato, tanto da avere molto fascino, ma se fino a qualche tempo fa i dialoghi di loro due sarebbero stati chiaramente uditi dalla mia fantasia, oggi la cosa mi risulta abbastanza difficile.
Come mi diventa difficile, che ne so, individuare la conversazione che un signore anziano intratteneva col barbiere in una delle vie storiche di Lisbona: dalle vetrine ingiallite, le decorazioni in smalto rame dei loro infissi, l’architettura in legno austero ma confortevole anni ’70 dell’interno, nel quale campeggiava un enorme ventilatore a muro e delle poltrone fisse imbottite di colore marrone scuro, notavo, seduto dalla panchina del marciapiede di fronte, una certa ironia del cliente. Non mi sarebbe riuscito difficile immaginare un’apologia salazarista quasi boriosa del signore anziano, mentre il barbiere, emigrato dal nord povero, dalla provincia di Bragança, magari, faceva uno sforzo indecoroso a contenere le malignità che la sua bocca voleva far esplodere, lui che nella vita ha sempre votato comunista, e che quando sentiva degli scioperi del ’68 si domandava quando mai sarebbe finito quell’incubo, e quando mai sarebbe stata la vita nella sua disgraziata Lusitania. Amava una ragazzina che si chiamava Ana Rita, in quel periodo, se li ricorda bene i suoi capelli rossi quando lui ancora era il garzone di Zé Felipe in Rua do Almada e lei saliva e scendeva due volte al giorno fino alla Calçada do Combro.
L’anziano cliente invece pensava che suo padre aveva appena comprato la tenuta di Evora, a quei tempi, e ai fine settimana passati a fare passeggiate per i campi di grano con la nipote dell’ambasciatore del Canada, mentre adesso, senza quel maledetto bastone, nemmeno riuscirebbe a raggiungere l'antro fuori dal tempo di questo torvo barbiere.
Avessi la chiarezza della fantasia, non starei qui ad interrogarmi, a chiedermi cosa mai debba pensare, cosa mai debba mancare, cosa mai inventare per rifugiarmi ancora.
Sará la lingua diversa, sarà un po’ di intangibilità endemica che si rafforza nel confronto con un mondo differente.
Pero’ mi sento sempre piu’ lontano, da cio’ che avrei voluto essere.
Saramago ci ha insegnato che la vita è un’eterna supercazzola.
Scrivetelo sulla mia tomba.
2 Comments:
At 30 settembre, 2008 16:01, Anonimo said…
Prometto, se mai sopravviverò, di scrivere sulla tua tomba.... (non sulla lapide, se mai ne avrai una...).
At 30 settembre, 2008 19:49, Il_Marchese said…
hmm non so, magari possiamo lasciare un po' in stand by, non sono sicuro che sia tutto supercazzola...
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