As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

venerdì, ottobre 03, 2008

Davanti al rischio c'è chi rinuncia, indipendentemente da ciò che cerca.


Tra Mario e Luigi sceglievo sempre quello vestito di verde.
Come del resto ho scelto il verde Sporting al rosso B*nfica, è come la storia della marmellata e del cioccolato, ma non vi inganni l’incipit, anche stavolta si parla di musica e apologie adolescenziali.

Sì, perché finalmente è arrivata la mia stagione preferita dell’anno (è diverso dal mese, attenzione…), il fresco ottobre precede la meraviglia decadente del Santo e Venerato Novembre, e ovviamente si riprendono i dischi piu’ antichi.

È da un po’, per esempio, che vado dalle parti di Seattle (e chi mai se n'è staccato, chiedetevi da dove viene Ben Gibbard), recuperando, tra l’altro, alcune cose che ai tempi mi sfuggirono, aggiungendoci una consapevolezza musicale completamente diversa, il che mi fa valutare e rivalutare intere discografie.
Non cambiando, pero’ i giudizi di fondo: a distanza di 15 anni, avrei continuato a scegliere i Soundgarden, per estro, violenza, classe, esibizionismo, attitudine, completezza, duttilità. Se i Pearl Jam avevano delle ballate insuperabili, anche i Soundgarden ne facevano di ottime. Se i Nirvana erano straordinariamente melodici, anche alcuni pezzi dei Soundgarden svolgevano benissimo il loro ruolo pop. Se gli Alice erano decadenti, violenti, sporchi, forse il vero esempio e sublimazione del grunge, l’incarnazione piu’ pura di sicuro, i Soundgarden sapevano anche essere questo.
E a livello di voce, parlatemi dell’immortale Cobain, dello splendore accecante di Layne Staley, della particolarità nasale di Vedder, ma veramente Chris Cornell (di quegli anni) era Dio in terra, non per niente si chiama Cristo. Chris aveva tutto, e non si faceva mancare niente. E non per niente, nel supergruppo la lead voice era la sua.
Eppure, cosa che stupirà, parlerò di un altro cd di quegli anni, Due Parole, di Carmen Consoli.

Molti pensano che io odi Carmen Consoli, o che non ne abbia stima, o che non le tributi un qualche merito.
In realtà la Consoli di meriti ne ha pochissimi, ha importato un certo cantautorismo femminile in Italia, ma quel pop noise (sì, è forte, pero’ giuro che io in Mediamente Isterica ho sentito piu’ di un plagio eclatante dei Sonic Youth) sempre timido e poco improvvisato l’ha sempre relegata in un limbo né buoni né cattivissimi, riservato a pochissimi, come molti sapranno e immagineranno data la mia forte linea di demarcazione (aut mi piace aut è merda irrimediabile), ascoltabilissima, godibilissima, ho piu’ d’un originale a casa, ma dell’originalità la Consoli, permettetemi, non porta certo la palma del migliore. Pero’ questo limbo autoimpostosi (notate, come i cantanti italiani promettenti che non nego definisca occasioni buttate al vento abbiano sempre esercitato un discreto fascino su di me, un esempio è Grignani, Campi di Pop Corn è uno dei pochissimi album grunge usciti in Italia e poi il buio – cit. non casuale) dopo la fragorosa caduta di vendite dovute a Mediamente Isterica (infatti per sbolognare quelle avanzate - dopo che Confusa e Felice ne vendette 150.000 secondo voi quante ne stamparono per Mediamente Isterica, che ne vendette la metà?- hanno pubblicato un’edizione deluxe uscita il primo settembre, per il “decennale”. E sì, perché di solito gli album che non vendono un cazzo sono da celebrare. Andatevene affanculo discografici dei miei coglioni) di cui sopra non le ha mai permesso di sedersi accanto ai Timoria, tipo.

Eppure la Consoli andava bene. Aveva presentato a Sanremo, con mio sommo sbigottimento visto che avrebbe dovuto portarci Fino all’Ultimo, mentre la mia preferita era Un sorso in piu’, l’omonima di quell'album, Confusa e felice, e diventata un cavallo di battaglia che le permise di scalare classifiche facendo due gradini alla volta, ed era esplosa, con una classe cristallina, bruciata, lisergica, melodica, grezza, alterata, quello che Polly Jane fa da anni, che realizzó nel successivo album straordinario, Mediamente Isterica, che ovviamente il grande pubblico non colse nemmeno con i sottotitoli.

L’avranno presa a schiaffi e dopo l'ecatombe del mio picco personale della sua discografia se ne uscí con uno scialbo Stato di Necessità, 300.000 scontrini alle casse, con archi dettati dall’alto e la scala di do in tutte le salse conosciute. Una eco del pensiero sputtanante che correva di quei tempi, e Carmen scomparse dalle mie priorità.

Ma nel 1996 Due Parole è stato un gioiello pop. E l’ho probabilmente sempre piu’ amato degli altri, anche se ho consumato la mia copia di Confusa e Felice che mi è stata trafugata da Alessio, e che si trova adesso a Treviso e che non rivedrò mai piu’, e che ho appena finito di collegare in cima a tutti Mediamente Isterica.
Riascoltarlo adesso apre delle porte spaventosamente rimaste blindate per decenni: naif, melodico, dolce, ingenuo nei testi e nelle musiche, forzo la mano, college.
Testi da diari della scuola, quello che scriveva qualcuno sull’ultima Repubblica cartacea che ho letto sui diari di scuola, ché erano di tutti, tutti scrivevamo sul diario degli altri, e su quello delle ragazze solo alcune pagine erano criptate. Era la crescita congiunta, la scoperta dell'altro. E credo che la mia scrittura fosse piu’ raffinata, piu’ descrittiva, piu’ fantasiosa e creativa di quella di adesso. Si viveva di sogni, ora si vive di pane a tavola e ricordi profondi e per questo vicini. La praticità, è chi mi ha ucciso.

Ma senza divagare, di quell’album ne apprezzo la semplicità (e la Semplicità, il pezzo), l’inesperienza clamorosa del cantato della Consoli, fragile, piccola ma desiderosa di cambiare registro, voleva un cuore cane, odiava le malelingue (quel gioiellino veramente liceale di lingua a sonagli, che solo per l’ingenuità vale il prezzo del biglietto), eppure piangeva al dare un consiglio che suonava come un la stonato, o nascondeva le lacrime quanto le capitava un amore di plastica, o ne sognava uno eterno, fino all’ultimo.
Un album ben prodotto, ben suonato, immediato, diretto, senza troppi pensieri sui target da colpire, valse la pena per noi preadolescenti come per quelli un po’ piu’ anzianotti di lei, che ai tempi ne aveva 21, venuto fuori a mó di presentazione su MTV con la scala allegrotta di Amore di Plastica, prima di un boom che si voleva accennare.

Eppure io dei pezzi di quest’album, un discreto puzzle, appunto, apprezzo molto quel che viene a seguire il singolone suddetto, canzone d'apertura. La tristezza di Sulla Mia Pelle, con sussurri da fata della Consoli, le magre consolazioni di Posso essere felice (rileggendo i miei diari, guarda un po’…), l’amore purissimo del cielo immenso di Quello che Sento hanno avuto sicuramente un valore altissimo nei miei ascolti negli anni successivi. Se è questo, crescere musicalmente, imparare ad ascoltare tutto, dal punto di vista del pop piu’ easy di tutti devo dire che non mi dispiace per niente che quest’album di Carmen Consoli abbia contribuito alla mia formazione.

Eppure l’endemia del mio essere è dovuta venire fuori lo stesso.
Ho ripreso il disco, non troppo per caso, è un album triste, in fondo, e mi andava una serata pop per questo primo venerdì d’autunno vero, ché ancora si puo’ dire che nemmeno una foglia è caduta, e dopo decenni ne ho aperto il booklet.
Credo sia stata la seconda volta da quando ce l’ho, cioè appunto da oltre dieci anni.
E ho scoperto che mica la Consoli ci suonava la parte elettrica.
E ho scoperto che il produttore e arrangiatore è anche lo straordinario e tristemente scomparso Francesco Virlinzi, l’uomo di punta della musica a Catania, non certo a Battipaglia, a fine Novembre del 2000 a soli 43 anni.

Una cosa che invece già sapevo è che la mia canzone preferita dell’album è Non ti ho mai chiesto. Di Virlinzi-Consoli-Rinaldi. Mica farina del sacco della cantantessa.
Il numero 6 di dodici brani. Il punto centrale, il riempitivo per eccellenza. Che mettiamo qua? Boh, avevo scritto un testo. Improvvisaci una melodia. Carmen, che ne dici? Perfetta, solo ci aggiungerei quel suono lì che si provava l'altro ieri ed è fatta, passiamo alle cose serie adesso. Con un inizio trascinato, una melodia triste, le parole ingenue e l’insostenibile peso di quegli anni dell’incomunicabilità. Chi l’avrebbe detto che sarei arrivato quasi a coltivarla.

Ascoltavo Carmen Consoli, e me ne stavo allontanando. Anche inconsapevolmente, sceglievo la strada diversa al suono principe, alla struttura globale del disco. Crescendo su tre accordi ripetuti, schitarrata ritmica, batteria azzardata, avrei scelto il piu’ complicato, quello in secondo piano, il barattolo coperto sullo scaffale, la marmellata, quella che stava sempre zitta, la parte piu’ sfigata della penisola iberica.

Preferivo Luigi a Mario.
E preferisco rimanere in quest’angolo.