Vento del Nord
Giovedì sera ho visto Jay-Jay Johanson al centro culturale di Belém, molto mal disposto; spesso, il lavoro uccide.
Nonostante questo, ho goduto appieno delle due intense ore di musica che il cantautore scandinavo ha offerto: una presentazione, nella prima parte, delle musiche del nuovo, bellissimo disco (del quale ho già parlato in termini lusinghieri), pezzi di repertorio, rivisitazioni di vecchi singoli, versioni alternative come una On the Radio più ovattata e liquida.
Ad una prima mezz'ora piuttosto lenta e dolcissima e profonda, favole di amori e scuse che non hanno ormai più nessuna ragione per esistere, sono seguiti momenti quasi jazzati, col bassista che si distingueva per la capacità di toppare due canzoni su tre e parti intensamente electro come è costume della sua tendenza principale.
Solo basso chitarra e tastiera, Johanson non ha suonato strumenti. Le rari parti "chitarrate" erano delle semplici tracce su pc preregistrate e amplificate, sulle quali la band suonava.
L'apparenza da frocetto non induceva comunque alla partecipazione attiva: praticamente fermo sul palco, si è lasciato andare ad alcuni movimenti solo per scattare foto ai membri della band. L'ambiente scuro dell'auditorium scarsamente illuminato: un live intimo e romantico, triste e sdolcinato.
Ha confessato di amare Lisboa, ché qualche settimana fa, mentre suonava al Fragil, la moglie l'ha chiamato per comunicargli di essere incinta.
Ed è questa la novità principale di Johanson, in fondo: rimane un discreto musicista che canta d'amore con le sue variazioni, nei testi e nei suoni, tra folk ed elettronica, capace di mantenere la sua originalità e il suo perchè.
Il vento del Nord non è solo quello di un cantaurore scandinavo a Lisboa, ma anche delle temperature basse di una delle città che ho amato di più nella mia vita e che, giusto questa notte, ho avuto la fortuna di visitare di nuovo: Porto, l'invitta, nei suoi palazzi decadenti e chiese gotiche, dark come mai, fulgente di nera tristezza, scura e opprimente che sancisce come fin troppo naif la luce di Lisboa, dai suoi abitanti pazzi e spontanei che hanno dato vita alla propria festa popular del patrono São João.
E se Lisboa era una sagra paesana moltiplicata per mille, Porto ha avuto il moltiplicatore almeno raddoppiato; basti pensare che io continuavo a chiedermi cosa fosse mancato a Lisboa per essere la Madonna della Montagna di Taurianova e me ne sono accorto solo quando ho visto la banda suonare sul palco alla Ribeira.
Un milione di persone armate di martello di plastica: durante qusta festa tutti prendono e danno a tutti reciproche martellate in testa con l'oggetto che vedete in foto, sorridendosi in modo innaturale. Alle 23 il 98% dei presenti é affetto da emicrania ma continua come nulla fosse.
La cosa non ha alcun fondamento logico.
Nessuno.
Ma ti prende così tanto che diventa impossibile fermarsi, è una droga, un movimento naturale a un certo punto, che uccide la conversazione e finisce per diventare un concentrato di "TOMA LÁ", beep e foda-se. E ci si martella tutti, bambini, vecchi, giovani, adolescenti senza distinzione di razza, colore politico, convinzioni morali o religiose.
E poi lo spettacolo dei fuochi artificiali, che illuminano il Dom Luiz I e spiegarlo sarebbe impossibile finchè non mostrerò alcuna foto; e poi ovviamente ancora sardinhas, il fiume illuminato, il ponte che oscilla, la confusione, la calca, le scene di panico.
Il sorriso dei Portuensi, che sono gentili, aperti, che urlano e dicono parolacce, che non se la prendono mai, che sono orgogliosi e veri, che non ti faranno mai sentire solo.
Che sono ciò che più amo di questo posto.
Quel vento freddo del Nord scaldato solo dall'intensità del loro infinito calore umano.
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