As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

venerdì, luglio 25, 2008

Le stagioni dei ricordi


Se il punto di partenza è questo, cosa volete aspettarvi dalla mia recensione dell'ultimo, straordinario album del mio attuale gruppo preferito? Even my winters are summers (s'ascolta tutto in streaming), e solo dal nome è ovvio evincersi l'immenso e profondo legame sentimentale che non puo' non legarmi ai Vancouver. Il titolo è mutuato da una striscia di Schulz, nella quale Charlie Brown ancora una volta scivola sulla collina del lanciatore, esattamente come gli capita in estate, e il succedersi del tempo è immutabile in un fallimento e in una tristezza continua, vissute con autoironia e gentile pudore. Sarà impossibile ripetere o superare le bellissime parole che ho scritto e che mi permetto di citare, per commentare quasi un anno fa l'uscita dei due singoli Jennifer e The Idler, "Jennifer inizia citando in maniera palesissima Tonight Tonight. Tonight Tonight, signori miei, come quelle urla da Corgan italico che l'Alain Marenghi sputava al microfono alla fine del poser e del lover, per innovarsi e strutturarsi su una armonia post-rock che nessuno in Italia, e fors'anche all'estero, ha ancora trovato: un noise che non stanca, una melodia tanto delicata da rimanere in testa come una canzone pop da due accordi, quando invece dietro vi è una genialità e una originalità negli arpeggi, cadenzati su una batteria precisa e secca, con un basso finalmente valutato come si deve per inscriversi nel nuovo mood indierock di questi anni da far impallidire banduccie di periferia e ragazzetti postshoegaze cover band di cover band con i padri miliardari a pubblicare dischi in serie senza il barlume d'un merito. Non so se solo io ci leggo così tanto quello che avrebbe fatto corgan se fosse ancora lucido oggi in loro, se è un bisogno che ho io di trovare la band tributo agli Smashing, e non voglio mancare di rispetto a questi ragazzoni parmensi che meriterebbero di stare in festival internazionali accanto a presunti mostri sacri d'oggi-avanti i, per quanto da me osannati ché non è mai facile farlo, Camera Obscura non hanno fatto altro che prendere una chitarra e scrivere 10 canzoni uguali in mezz'ora-, e i Vancouver hanno dietro di loro un bagaglio culturale che non si esaurisce in questa mia ossessione continua, ma pescano in poesie scozzesi (The Idle, i Mogwai che si fanno produrre un album dai Delgados) -e nell'Idle ci sento pure un po' di Gibbard-, forse in un certo spirito Teenage Fanclub, raramente, mentre sotto il post d'avanguardia che cresce sulla voce dal timbro inglese del Marenghi (e ditemi se l'originalità sta qui o dalle parti dell'arrogante bottegaio, indeciso tra Low e Robbie Williams, gente che incide dischi a cazzo, per intenderci), che facilmente è accostabile alla rinascita shoegaze di questi tempi, crea una strada, un percorso da seguire, una innovazione logica e matura di un progetto che da una Foggy Town porta precisi precisi alla realizzazione di due pezzi che solo dalle premesse promettono di imporsi a diversi livelli e in diversi generi in tutto il panorama musicale d'oggi." E parlavo di due singoli. E mi auguravo che i Vancouver si confermassero. Si sono ben piu' che superati. Un album breve, otto pezzi da tradizione preweb, quando i dischi erano supporti da macinare e consumare, come questo stesso disco richiede d'essere, ascoltato, adorato, consumato. Un disco che sarà sempre l'ultimo a destra della mia collezione di cd, ché ascoltare questo album è il desiderio raggiunto di congiungere intere discografie e citazioni da far sobbalzare il cuore, di tutti i miei gruppi preferiti di sempre. Un magico miscuglio di parole e suoni, una miscela di influenze che avrei sempre creduto eterogenee e che loro invece ci presentano colorate di una compattezza ed originalità che ogni ascolto risulta sempre fin troppo commovente e intimo, familiare, come mai mi era successo con nessuna band e con nessun album. Ogni nota rimanda ad un pensiero, ad un ricordo lontano, ad echi brit adolescenziali o a concertini noise dei tempi universitari, o ai My Bloody Valentine e J&MC e allo sbalordimento al primo ascolto dei Cocteau Twins, o a quei momenti nei quali credi che l'unica persona che ti abbia mai capito al mondo è Ben Gibbard e ogni ascolto è una esperienza nuova, un ritorno piu' potente di altre emozioni, un pozzo senza fine di dolcezza e intensità. Sin dal primo ascolto, ed ogni volta scopri una nota nuova, un'invenzione, un tocco di classe che non ti aspetti e che conferisce ai Vancouver una vetta d'originalità che oggi nessuno, e dico nessuno, puo' permettersi di raggiungere. Perché è impossibile rinchiudere questi ragazzi, e realmente nessun altro, in una definizione, in un genere, in una trama. I Vancouver sono musica a parte, sono un genere a sé stante, sono la composizione perfetta di tutto cio' che di buono abbiamo avuto negli ultimi 20 anni. È questo il disco, dopo le prime due, meravigliose canzoni, arrivano Shape of Your Knees, dolce e delicata, un arpeggio melodioso e gli echi Slowdive, ancora arie post rock con distorsioni e campionamenti noise ma senza mai perdere il senso del melodico, la loro discriminante, il loro surplus, il loro punto forte; Penalty Box, una genialata irraggiungibile, college rock pesantemente influenzato da Gibbard e Death Cab, sorprendente pezzo veloce e mix inaspettato, mentre il Marenghi accompagna le variazioni continue della marcetta che ora cresce, ora si spegne, come ansie e dolori di momenti di indecisioni travagliate, nella fuga dalla routine grigia d'ogni giorno, tra chitarre piene e suoni ora minimali, ora carichi di arpeggi e distorsioni con batteria a picchiare forte; Where The Beat is Happening, un inizio cupo e cadenzato, certe arie Cure periodo pop e personalità Morrissey (evento storico, li ho messi insieme e nella stessa frase e dando dignità al cantante degli Smiths, oltretutto citato nel pezzo), e mentre stai osservando a che punto di dolce delirio ti portano questi ragazzi ti trovi nel 1994 ad ascoltare un pezzo brit in un locale scuro di Londra mentre fuori sta piovendo a dirotto, finché la chitarra non diventa piena alla Sonic Youth e si cambia ancora scenario; questo per prepararci al suono rock nudo e crudo di un pezzo come King of the Rainy Kingdom, che culla la voce di Marenghi, seguita dal vero tributo al Charlie Brown di cui sopra, la Pitcher's Song, il post rock suonato dai Delgados come nelle Great News From The Foggy Town, un pezzo-manifesto ancora una volta sorprendente per arrangiamento e originalità; e infine il pezzo che dá il titolo all'album, degna chiusura, dolce e sentimentale ballata triste, mille ricordi e miele a volontà. Ho detto spesso che i Vancouver rappresentano quello che Billy Corgan farebbe se fosse lucido. Credo di aver peccato di superficialità. I Vancouver sono una frontiera continuamente nuova, sono un territorio a parte, sono una base solida e un modo di fare musica innovativo, sono l'evento di questi ultimi anni. I Vancouver, se fossero inglesi, riempirebbero arene in tutta Europa e si starebbero preparando per un tour americano, ché dalla provincia emiliana è nato un gruppo innovativo, maturo, coerente e compatto, che genera emozioni e passione. E questo album è perfetto dalla prima all'ultima nota, è un bozzetto dai mille colori armonico e architettonicamente ineccepibile, da suoni che graffiano e accarezzano, quando te lo aspetti, quando lo desideri. Eccellente e magnifico, dolce e introspettivo canto all'anima. Promesse che si mantengono, azzardi familiari, originalità inaspettata. L'album dell'anno parla di interminabili stagioni che si succedono spesso troppo uguali, ma che val la pena vivere, se la colonna sonora che le accompagna è questa. Un amore sconfinato per la musica di questi ragazzi, un album eterno destinato a marcare fortemente i miei giorni. Cio' che ho sempre aspettato, cio' che ho sempre pensato. Even my winters are summers.