As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

lunedì, febbraio 13, 2006

Il cielo di Lisbõa


Lisbona. Lisbona non e' un post, e nemmeno i centomila bellissimi libri che hanno scritto su di essa.
Parto un giovedi', dalla stazione di Nelas, un paesaggio rurale che -non me ne vogliate- puo' avere di fronte agli occhi solo chi ha visitato i piccoli centri montani della Calabria di almeno 10 anni fa. Tutto e' fermo, tutto dorme: la stazione e' quella delle "littorine" che nel nostro Sud ancora vanno e vengono per nessun viaggiatore piu'. Un teatro in architettura protofascista sorge prima che lo sguardo si perda dietro le montagne.
La gente mi sorride, o mi guarda male.
E' un mattino freddo.

Dopo poche ore sono a Lisbona: la stazione dei treni e' avveniristica, un progetto impressionante. Acciaio, forme arrotondate: rimango a bocca aperta mentre salgo sulla metropolitana. Prendo un ostello da 10 euro a notte al Rossio, nella piazza principale. E' mattino, e per la Rua Augusta mi inseguono spacciatori che, intuendo che sono italiano, cercano di piazzarmi due grammi di coca a trenta euro. E pezzi di cioccolato, e pasticche, e crack... E tutto, davanti agli occhi dei solerti agenti di polizia. La Rua Augusta e' la via principale, c'e' un monumento costruito dall'allievo di Eiffel, e ha tutti i caratteri, di giorno, della metropoli moderna. Mille lingue, mille facce.

Se non fosse per le case. Alte, diroccate, decadenti, bruciano al sole di Lisbona con tutti quei colori che sono accesi e spenti, con gli azuleis che narrano di storie, di paesaggi, di eventi, di commerci, di conquiste di cui questo popolo si vanta ancora come fosse ieri, unico splendore di una nazione troppo periferica per essere "grande".

Lisbona mi fa innamorare dell'elettrico, che dal vivo e' molto piu' di un'immagine televisiva con il mare sullo sfondo. E ancora quelle case, che cadranno. E il monumento alle grandi scoperte con il Re che regge in mano la caravella e Vasco da Gama a Gubelkian. La Torre di Belem, medievale come una canzone dei Cocteau Twins, sul mare, malinconica e surreale alla luce del tramonto. Dall'altra parte del fiume, c'e' Cristo Re, altissimo, imponente, impressionante, austero. E il ponte del 25 Aprile, una data storica, per loro, ancora, che dovevano vestire tutti uguali, che non potevano avere un accendino senza la licenza del governo, rosso come la liberta', ed era l'altro giorno.
"Vinti e cinco april sempre", dice un murales che mi fa accaponare la pelle, mentre penso a come la loro sia ancora una conquista da fare ogni giorno, e non qualcosa di acquisito, non un valore di cui ormai abbiamo perso il senso piu' profondo e reale.

Il Bairro Alto e' invece un'immagine concreta di cio' che porto nel cuore. E' il luogo dove vivere una vita. La mia vita. Che ho inseguito per anni, che ho sognato. Un milione di spillette, un milione di vite umane diverse, ragazzi col drink in mano a bere fuori e a sorridere e a parlare di vita e musica. E abbigliati cosi' com'e', cosi' come viene.
La musica che vien fuori dai locali non e' nulla di banale, mai. L'elettronica e' raffinata e ipnotica, provo una maglietta mentre parte Far Away dei Cranes e rimango senza parole in un negozio di colori variopinti e magliette a 5 euro. O parlo due ore di dark wave con il commesso di un negozio di vinili che ha una spilletta dei Joy Division appuntata sul cuore.
E' questa la gente, la mia gente, quelli come me.

Lisbona, centro storico, e' fascino, e' odori forti, e' un mondo antico che non ha voglia di conoscere il moderno. E' gente che suona agli angoli il fado allegro di Amalia o sviolina tristemente di amori perduti. E' una ragazza di Capo Verde che canta in un locale la saudade brasiliana. E' il legame di mille razze che vagano tristemente in un vivere intenso a cavallo del tempo.

La Torre Vasco da Gama, il Paviliao Atlantico dove non ho visto i Depeche Mode, purtroppo, il Ponte piu' lungo d'Europa che non si vede dove finisce e la modernita' estrema della zona dell'Expo non fa altro che confermare un'impressione che sta alla base di tutto questo: la modernita' non e' ancora questo, Lisbona non e' Roma ne' Milano, ne' Barcellona ne' Parigi. E' una metropoli che rimane una citta'. Una metropoli senza indifferenza della gente, con la criminalita' che e' solo immaginata: nessuno mi ha costretto a comprare droga o a conseganre qualcosa. Nessuno e' ossessionato dal difendere cio' che ha. Nessuno ti guarda dal basso all'altro.

"Moderna, come l'orizzonte, grigio senza parole". Non e' cosi'.
L'orizzonte non e' grigio. E' un'alba di speranza forse. O forse no. E forse non conta poi cosi' tanto.

Mentre vado via, mentre torno al freddo di Viseu, con una spilletta verde e rossa del sole socialista che sorge, penso a quanto forse ho perso tempo, negli anni, ad inseguire questo posto, che avevo dentro, e che avevo cercato invano. Ed era qui, dietro l'angolo.
E non so se essere contento per quello che sara' domani, o triste per quello che non e' stato ieri. Forse posso ricominciare, di nuovo. Un'altra volta.

Penso questo, e dal finestrino dell'autobus compare lo stadio dello Sporting, l'Alvalade, la mia equipo del coraçao, qui.
Il mio cuore battera' la' dentro, per quei colori.
Domani.

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