Una vita in nero
Ieri sono andato a vedere i Cure a Taormina.
E' difficile spiegare, così, in un post, quello che ha rappresentato per me il folletto nella foto a destra...
Ho scoperto i Cure all'età di 14 anni, in un periodo terribile della mia vita, quando la morte mi aveva portato via una delle persone che più m'avevano insegnato fino a quel momento nella mia esistenza, e tutto stava cambiando irrimediabilmente, e me ne accorgevo, non riuscivo a dominarmi, mi facevo troppe domande, tutto mi appariva così grande e così impossibile da comprendere che un innato nichilismo mi stava prendendo e trascinandomi verso le più nere derive dell'animo umano.
Scoprii arie devastanti, funeree, lessi le parole scritte da Robert Smith e fu una folgorazione: scriveva, questo piccolo folletto, tutto ciò che avevo dentro, con le parole giuste, con l'intensità più disperata, con inni alla morte e alla fine di tutto nei quali mi ritrovavo esattamente e perfettamente.
Certo, ero trascinato dai miei 14 anni, dal mio infantilismo.
Ma la mia vita cambiò, paradossalmente trovai certezze, trovai che non ero così solo nel mio dolore, trovai il mio pessimismo atavico nel cuore di qualcun altro.
E iniziai ad andare in giro truccato di eyeliner, rossetto nero e unghie nere.
Immensi cappottoni in pelle nera.
Poesie di morte regalate ai miei diari.
Sempre triste.
Ero diventato un dark.
Con il fatto che suonavo già, che comunque non erano così sconosciuti questi Cure, conobbi anche quella che è stata, è adesso e probabilmente sarà per il resto dei miei giorni la donna più importante della mia vita.
Nel frattempo crescevo, e crescendo tutto cambia: non ti droghi più, bevi di meno, non ti trucchi a 24 anni e una laurea per andare in giro. Lei c'è, non c'è, c'è di nuovo, non c'è più.
Chissà dov'è finita.
Ma quel Robert Smith nella vita ti accompagnerà sempre: e non posso non amarlo, non amare la sua timidezza-vera o falsa che sia- la sua emozione, la sua voce tremante.
E così ieri sono uscito di casa, da solo, alle 15 per andare a Taormina, e truccarmi a quel modo, rispolverare la maglietta aderente nera e le Doc. Martens è stato come ripetere un rito obliato e fiero. Rito che avevo compiuto, l'ultima volta, circa cinque anni fa.
Arrivo, e il Teatro Greco è una struttura bellissima: siamo in 4500 a stipare gradinate e platea, una immensità. Giochi di luce da sogno, panorama incomparabile, serata tiepida e meravigliosa di mezz'agosto.
Uno scenario da sogno.
Il problema è che non è possibile stare in piedi, e comunque il posto in gradinata garantisce ottima acustica, ma lontananza siderale dal palco. Quindi, richio di scarsa partecipazione emotiva.
Poco male, la capacità di rendere partecipi noi tutti di Robert Smith è arcinota.
E' difficile, credo, per chiunque proporre le stesse identiche cose per 20 anni- 'a strange day', per dire, di anni ne ha 23- e il rischio di offrire una minestra riscaldata, e anche male, è concreto sempre e comunque.
Stavolta i Cure sono senza tastiera. Ed è una scelta che non mi trova totalmente d'accordo: l'effettistica è essenziale, un reverbero, un flanger, un delay per Thompson e Smith, e solito suono metallico di Gallup.
Mancano in modo evidente i suoni liquidi delle tastiere, sopratutto se vuoi offrire al pubblico i pezzi di Wish o di The head on the Door. Ne risulta uno show molto più 'grezzo', rude forse: la rilettura di 'The funeral party' è nel caso emblematica; una distorsione francamente fuori luogo che la fa sembrare un pezzo quasi punk... Svuotandola dell'aria molto dark che invece la caratterizza...
Scelte, più o meno condivisibili, che comunque non mi sento di biasimare: c'è il rischio 'minestra riscaldata',e allora arrangiamenti nuovi possono anche andar bene.
Soliti limiti tecnici: Smith uccide letteralmente 'A letter to elise'; fuori tempo, sbaglia persino l'arpeggio.
Batterista che rallenta o accelera inspiegabilmente appena si passa dai 4/4 a qualsiasi altro tempo.
Gallup veramente in rovina. IN ROVINA.
Distrugge 10:15 on a Saturday Night, sbaglia perfino nelle 4 note 4 di A forest. Continua a dondolarsi col basso sotto le ginocchia e a steccare senza pudore. A quest'età.
Thompson va bene, invece: senza sbavature, compitino svolto alla perfezione.
Cosa c'è di buono, allora?
Di buono c'è che Smith la voce non la perde mai: 'Three imaginary boys', penultima canzone dopo 3 ore e passa di concerto, la canta come quando aveva vent'anni.
Che Smith ti fa chiudere gli occhi e tornare di colpo a quando a 16 anni camminavi in giro con le labbra truccate di nero in una provincia estrema nella quale era impossibile sentirsi 'vivi', ed eri solo tu col tuo walkman e tre canne addosso con 'Shake dog shake'.
Che su 'the figurehead' quando urla, e tu con lui, 'touch her eyes, press my stained face, i will never be clean again' ti metti a piangere a dirotto, tu e altri accanto a te, e chi se ne frega che la gente ti guarda attonita.
Smith è un vortice di emozioni, come sempre, un poeta del buio capace di emozionarsi anche lui su 'one hundred years', perchè davvero l'ha 'sentita', non è stata solo una mia impressione, visto come è fuggito via coprendosi gli occhi alla fine.
Palesemente sovrappeso, meno di quanto mi aspettassi, ma comunque molto grasso. La prima parte, chiusa con 'end', è filata via liscia. Poi ogni tre canzoni si teneva la testa e fuggiva nel backstage, per tornare dopo poco. Eh, starà invecchiando.
Parla poco, e questo è strano, solo per dire stupidaggini.
Storpia 'american dolls' con 'sicilian dolls'.
Timido e impacciato come sempre: ci è o ci fa? Nessuno secondo me può saperlo, neppure la fidata moglie, fino a che punto Robert reciti.
Ci regala pezzi inaspettati: Push, Never Enough, Grinding Halt, M, In your House, Kiss me kiss me kiss me, to wish impossible things, A night like this, End, from the edge of the deep green sea, oltre alle solite Boys don't cry, Play for today, Friday i'm in love, A forest...
Fa tre o quattro del nuovo, non le conosco.
Fa anche qualche pezzo che non mi ricorda nulla, stranamente, e non è genere nuovo album... O sono inediti, o fanno parte di quella roba b-side che ho trascurato in join the dots o nei doppi cd di questi anni.
Chiude con Killing an Arab, dopo 3 ore esatte di musica.
Cosa aggiungere?
Smith asseconda molto il pubblico, non ha toccato wild mood swings e bloodflowers, ha fatto poco, pochissimo del nuovo. Un concerto per tutti i fan, noialtri darkettoni (o post-), e quelli della 'seconda ora'.
Punto di vista sociale.
Vicino a me quattro ragazz* in blusa rossa e gialla, un verde e una camicia nera con innesti biancastri che mi guardano come un alieno mentre canto a squarciagola 'the blind man kissing my hands'.
Non sono fans, e per tutta la serata mi chiederanno lumi su album, anno di produzione e casa discografica (è sempre la fiction, cazzo), straniati dal fatto che io sappia tutte queste cose.
In sostanza sono arrivato tutto nero dove nero non è nessuno. Ci guardiamo con gli altri, pochi, truccati e abbigliati in funeral style rendendoci conto di quanto, in fondo, siamo patetici.
Molti vestiti in rosa, ragazzini che non sapevano le canzoni, nessuna canzone vecchia, che ci guardavano stupiti quando applaudivamo alla prima nota di un pezzo di seventeen seconds, il cui nome ci comunicavamo con ebbrezza innaturale, come se lo stessimo aspettando da una vita, e non era nemmeno lecito pensare che potesse regalarcelo.
Dietro, un anziano borghesotto sulla 50ina.
Sono passati quattro anni da quando li ho visti l'ultima volta.
Siamo tutti vecchi, siamo tutti legati a un passato che non tornerà mai più.
Con cui abbiamo fatto i conti, e non abbiamo, almeno per quanto mi riguarda, rimpianti.
Solo che è stato bello,
almeno per una sera,
tornare a sognare ad occhi chiusi
su quattro poesiole disperate
che hanno segnato irrimediabilmente la mia vita.
Tornare a pomeriggi d'inverno, al liceo, quando tutto era facile e invece ti sembrava impossibile, chiuso in camera con quattro cassettine.
Tornare a quando la conobbi.
Tornare a Pornography a 15mila lire.
Tornare alla disperazione infinita delle notti a chiedersì immensi perché, quando avevo il tempo di osservare la vita con il dono del dubbio.
Tornare all'erba nascosta nello zaino.
Tornare alla prima volta che fummo, io e lei, soli, il mondo intorno cattivo, lontano da noi, su Three Imaginary Boys.
Quando non avevo fretta di inseguire il mio futuro.
Bastava solo chiudere gli occhi ieri sera.
E tornare ragazzo, adolescente ipersensibile e incompreso, carezze leggere su visi pallidi, baci rubati al tempo.
Sbornie, urla a casa per nulla.
Un basso in legno.
Un libro folgorante.
Un messaggino d'amore.
Una stanza vuota,
un tavolo, una sedia e una luce fioca.
Notti senza luna.
Notti scure e profondissime.
Notti che non torneranno mai più.
O forse sì:
torneranno
ogni volta che chiuderò gli occhi
e sentirò la voce del mio amato folletto nero
raccontarmi di gironi che diventeranno sempre più 'heavier and weighted'
sussurrarmi
'sweet child,
the moon
will change
your mind'.
No, Robert,
non è stata la luna;
sei stato tu.
5 Comments:
At 22 agosto, 2005 08:37, Anonimo said…
Mi ha telefonato un'amica e sono stato un minuto a sentire qualcosa che poi mi ha rivelato essere stata "lullaby".
Gran post! ;-)
At 22 agosto, 2005 14:39, Il_Marchese said…
Emotivamente esaltante, quella Lullaby. Chiaramente, la sapevamo tutti e l'abbiam resa straodinaria.
Troppo buono, caro Luigi. :)
At 22 agosto, 2005 18:01, Anonimo said…
caspita autumn..m hai fatto venire le lacrime agli occhi....
At 23 agosto, 2005 01:01, Il_Marchese said…
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
At 23 agosto, 2005 01:03, Il_Marchese said…
Grazie infinite, darkmoon.
Non c'è cosa più bella -è quello che dicevo prima- del sapere che non sei solo nelle emozioni più 'forti'.
Edit: il precedente è stato rimosso per errori di battitura.
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