Francesco Bianconi e l'estetica del sublime
Probabilmente avrei dovuto scrivere il post sui Baustelle in un altro momento, quando l’entusiasmo per quello che si candida a pieno titolo come uno degli album più belli dell’ultima decada –non solo in Italia- non si fosse un po’ offuscato come adesso, che mi ritrovo ad ammirare, straordinariamente incantato, l’ultimo album degli ODP; perché la cosa bella di questo periodo è che questi due album sono usciti insieme, e sono stati insieme due rivelazioni e due opere talmente somme tali da essere capaci di cambiare profondamente il cammino e l’esperienza professionale dei nostri eroi.
È che ho voluto attendere fino all’arrivo del cd, dell’originale, qui in Portogallo…
E Amen, il quarto album dei Baustelle, prodotto per la Warner, il secondo dopo il passaggio a major, è senza dubbio l’opera piu’ matura dei nostri, e in un certo senso anche il definitivo assestamento su livelli immortali e la conferma dell’intuitività, della originalità e del preziosismo della scrittura di Francesco Bianconi.
Di fronte al sublime di Amen, infatti, non solo la Malavita, da me stracciata senza pietà qualche anno fa (e sin d’ora rigetto quindi qualsiasi accusa di parzialità o scarsa oggettività nei riguardi di un gruppo che non ho mai nascosto di amare moltissimo, ma che ho sempre giudicato con somma obiettività, almeno, con tutta l'obiettività della quale son stato capace), dimostra di essere stato solo un album di passaggio, una breve involuzione, una parentesi infelice (ma non troppo, parlo in relazione alla loro discografia, nel panorama italiano ci sono gruppi che venderebbero l’anima per almeno pareggiare il disco del 2005) piu’ che chiusa, ma anche la stessa, immensa Moda del Lento, ne esce completamente ridimensionata, pur mantenendo il suo valore altissimo.
Perché Amen, sin dal primo ascolto, si è dimostrato un cd perfetto, dalla prima all’ultima nota.
La scrittura di Bianconi, provinciale ormai trapiantato in metropoli senza mai aver perso gli elementi fondamentali della sua origine, caustico narratore di storie sporche e turbate o pungente critico della bassezza umana, rimane forte e ricercata, densa di citazionismi e mai banale (e che pregio, il naif baustelliano, il punto di incontro tra storie semplici e linguaggio ricercato), con le punte altissime del capitalismo auto consunto o amore mio dice il governo che è passato ormai l’inferno e ti ho sposato, mentre la musica, una maturazione e un rimodellamento costante sin dal Sussidiario del pop dei Pulp, con ormai Massara completamente fuori dal gruppo, questa volta colorata da una quantità di arrangiamenti e orchestra inusitati, soltanto ad un primo e superficiale ascolto eccessivi, è ormai la versione piu’ architettonicamente curata del suono classico baustelliano, dalle eccellenze lo-fi sussidiariche a questo logico puzzle di pezzi indimenticabili.
Il modo migliore di sfruttare la Warner, in un certo senso: ci sono i mezzi ed allora costruiamo il nostro monumento, ed ecco un pezzo pregiatissimo, un cd d’alto lusso, nel quale la chitarra di Brasini ritorna abbellimento e melodia e la Bastreghi ritorna ad essere il velluto di sussurri caldi che la rende unica, molto piu’ presente che nella malavita, mentre ogni pezzo ha il suo collegamento con la storia precedente baustelliana; ogni pezzo infatti ha una sua unicità (è per questo che il cd non potrà stancare mai), e rappresenta le varie angolature del pop secondo Bianconi.
Sin dal primo cantato, infatti, vediamo la pratica dimostrazione di uno dei paradigmi preferiti di Bianconi: Colombo (curiosamente lo stesso nome del piu’ grande centro commerciale del Portogallo, il non luogo per eccellenza, un mostro di fronte allo stadio da Luz delle dimensioni del mio paese d’origine, addirittura coi nomi delle strade e vere e proprie piazze del consumo sfrenato) è la chitarra ad accordo pieno in entrata e successivamene a semplice distorsione, marciando su variazioni in scala, che accompagna la descrizione degli idoli del nuovo millennio, delle Nuove Droghe Televisive (architetti di Bel Air che uccidono per soldi come te) spacciate da Fox, col caviale a colazione per l’immedesimazione delle ormai ex massaie diventate lavoratrici o dei precari delusi del 2008, e la variazione a doppia voce, la prima, l’introduzione al duetto quasi perenne, finalmente e di nuovo, di Rachele e Francesco, che preannuncia fuochi d’artificio spettacolari.
Fuochi d’artificio che vediamo poco in Charlie fa Surf, primo singolo, che se ascoltato da solo forse è deludente –per un vecchio fan- essendo un medley tra la riuscita la Guerra è finita e le storiche Vacanze dell’83, non allontanandosi troppo dal compitino cover dei Pulp, ma che ci sta sempre in un baualbum e che solo per le intenzioni va premiato.
Che sempre sarà un buon biglietto da visita per chi disconosce.
Anche perché lo spettacolo non si fa attendere: il Liberismo ha i giorni contati è una delle canzoni piu’ belle dei Baustelle, siamo ai livelli del Riformatorio, e se nomino il Riformatorio senza paura di bestemmiare già ho detto piu’ di tutto.
Una storia grottesca e di una ironia preziosa e indimenticabile. Intro di Rachele, chitarrone di Claudio, carte in tavola di Francesco: “Anna pensa di soccombere al mercato non lo sa perché si è laureata anni fa”.
Una marcia irresistibile, un crescendo tipico bau, nato dalle Vacanze '83, sublimato nella Moda e ancora piu’ spettacolare questa volta. Bianconi che dice Vede la fine in me che vendo dischi in questo modo orrendo è una stilettata anche a quelli (come me) che si sono scandalizzati al passaggio a major. O una stilettata a sé stesso.
Il mondo va avanti,dove sta il ridicolo? Nel ribellarsi o nel seguirlo?
Non lo so, non lo sappiamo, ma il mestiere di Bianconi è sempre stato solo quello di raccontare le storie sporche, le piccole debolezze e le pateticità dell’individuo, che erano provinciali in sadik, che sono sociali nei giorni contati del Liberismo.
Lasciamolo andare, il mondo. Che abbia il marchio di una multinazionale della musica o che porti una spilletta autoprodotta, non fa molta differenza, di fronte ad un pezzo tanto maiuscolo.
Pezzo cui segue l’Aeroplano, prima canzone dell’album unicamente cantata da Rachele, e siamo ad un’altra angolatura Baustelliana. L’aeroplano è una storia d’amore disperata, consumata, da primo posto a sanremo anni ’70, quando sanremo era davvero l’antologia sublime del pop italiano, con quell’orchestra triste e lo sfondo di una guerra nella voce soave e sussurrata, o disperata e alta di Rachele; un po' come prendere la canzone del parco e incubarla per darle vent’anni di esperienza in piu’. Cosa resta di noi? Un rottame di Volkswagen.
Baudelaire, invece, inno alla vita manifestante l’inutilità del suicidio (? – badate bene, il nome dell’album è amen, piu’ volte sentiamo nominare chiese, campane, déi. Qualcuno ha fatto confusione, reputando Bianconi un teocrate, invece questi déi sono sporchi come ogni personaggio Baustelliano) molto differente, poco assimilabile a qualsiasi altro ricamo mai ascoltato finora dalle parti di Montepulciano; l’elettronica Bau non è mai stata un marchio di fabbrica, eppure arrivo a sentirci Bowie addirittura, per lo meno nella parte iniziale. Non mi stupirei se nel prossimo album ci saranno pezzi simili… è una nuova angolazione pop dalla quale i Baustelle ha cercato di guardare.
Eccellendo, ovviamente.
E L, cantata in duetto, creature dallo spazio che si innamorano della purezza di Laura, crescendo orchestrale, atomi di tenerezza dei giorni qualunque, apre le porte ad un altro capolavoro, Antropophagus, addirittura citando Battiato in apertura e con un ritornello a due voci su un giro Pulp dalle rime indimenticabili sin dal primo ascolto, seguita da Panico! (A Lee), che si autodefinisce country e che invece è un falso: parte con giro baustelliano in salsa country, appunto, per poi crescere, pregio di quegli ultrarrangiamenti solo apparentemente sovraccarichi, per diventare un altro pezzo marchio di fabbrica; ancora un duetto, ed è una canzone che era nata "male", non mi convinceva, ed invece continua a crescere e a crescere.
Fino ad Alfredo.
Dimenticate Sergio, il Corvo Joe e tutte quelle cazzate.
Alfredo è una lezione di musica.
Il pianoforte sillaba insieme alla voce maledettamente meravigliosa di Bianconi la storia straziante del piccolo Alfredo, primo caso di comunione mediatica in Italia, lontanissimi ricordi della mia infanzia e le minacce di cadere nel pozzo fossi stato cattivo, la P2, Cossiga, la DC; terribilmente commovente, al milionesimo ascolto mi farà piangere ancora, il cielo d’estate che scompare, il bambino caduto. O spinto. Nessuno saprà. Misurare il vuoto dentro di sé.
Il vuoto, la Chiesa. Morire la domenica. I temi dei Baustelle, i ricordi dell’infanzia, dei provinciali bagni al fiume, dei sogni e dei turbamenti adolescenziali, delle sigarette al veleno, dei B-movie, sono presenti come mai, come solo nel sussidiario, perla solo fino a ieri irraggiungibile, sono senza filtro come una volta. Lasciati correre via. Non m’importa che il cd lo compreranno le darkobese, stavolta: sono cose così profonde, così impossibili da comprendere a chi non le ha vissute profondamente, a chi non ha bramato tanto perché tornassero, che si manterranno immacolate in chi, come me, li ama da sempre e principalmente per questi temi trattati così nudamente, originalmente, senza vergogna, anzi, imponendo la sublime estetica di questa vergogna. Nonostante dischi d’oro, platino o quel che verrà mai.
Il Brasile lo invento, diceva Bianconi tempo fa, e finisce per inventarlo Rachele, che inventa musica e canta in solitario Dark Room, una bossa intervallata da un altro ritornello riuscito, cui segue la bellissima l’Uomo del Secolo, ai livelli del Liberismo e di Antropophagus, una continua melodia, un’altra canzone da Pulp maturi, un crescendo continuo, un manifesto Bau convincentissimo. La ricetta perfetta dell’angolazione piu’ classica.
Non una sbavatura, non un errore, in quindici pezzi perfetti, La vita va ha un sapore anni 80 di un altro film baustelliano, di un’altra angolazione, con Rachele che raggiunge l'intensità piu’ profonda; l'arrangiamento caricato troppo tra le due strofe forse destruttura la canzone che riprende peró il filo nel crescendo seguente, come sempre ben spalleggiato dalle melodie dell'ormai irrinunciabile orchestra.
Andarsene così passa in fretta, ché presto arriva il pezzo manifesto, l’arrivederci alle prossime puntate, al prossimo album, alle prossime meraviglie: Spaghetti western è il sogno realizzato dei Baustelle.
Una canzone che pare raccontare una scena di un film qualsiasi di Tarantino, ovviamente quindi di qualsiasi spaghetti western mai realizzato nella storia del cinema, pero' ambientato in un luogo di lavoro del sud italiano… Una scena tutta sabbia di deserto e sparatorie in un saloon, in salsa turbativa e bacchettante costumi prettamente baustelliana. Altro marchio di fabbrica, superfluo aggiungere.
L’ultima conferma sono i due pezzi strumentali: ricordo, quando ancora i Baustelle erano un gruppo di Montepulciano che non conosceva nessuno, e del resto come era indicato nel retro della Moda, che Bianconi e co. si dicevano disponibili a comporre colonne sonore per film: i due pezzi, No Stainway ed Ethiopia sono fortemente da B-movie italiano anni 70 –non a caso direttamente anteriore a Spaghetti Western il secondo-, sono la base per inseguimenti a mano armata o momenti di volgarissimo thriller. L’imposizione del marchio, ancora una volta.
I Baustelle sono tornati ad inventare, sono tornati ad eccellere. Restituendoci il sapore di quello che erano agli inizi, caricandolo di nuova maturità, facendolo crescere e crescere, rendendolo sempre piu’ unico, piu’ di quanto sempre è stato.
Quest’album è meraviglioso, raggiunge le vette del Sussidiario Illustrato della giovinezza, detta le regole del pop, erge i Baustelle in cima ad ogni altro gruppo musicale attivo al momento. Messi da parte gli eccessi di personalismo di Bianconi, messo da parte Massara (unico rimpianto: se siamo arrivati a questo punto, il merito è di certo anche del buon vecchio Fabrizio), messa da parte l’involuzione della Malavita, i Bau sono rinati e sono tornati.
Sarà difficile riuscirsi a superare, e
E se davvero riuscissero a farlo Bianconi avrà trovato dio: gli basterà guardarsi allo specchio.
Quest'album è divino, ne sono certo.
E noi c'eravamo.
Ci siamo sempre stati.
8 Comments:
At 12 febbraio, 2008 13:36, Anonimo said…
..ok.. convinto..
udirò e commenterò..
Sciau caro
At 12 febbraio, 2008 21:31, Il_Marchese said…
Non ne rimarrai deluso, ne sono certo.
Abbracci.
At 13 febbraio, 2008 15:35, Anonimo said…
Ti volevo ringraziare per la recensione, che mi ha spinto ad ascoltare l'album di questo gruppo che, confesso, ignoravo, dopo esser stata incuriosita da un articolo su Vanity fair. Lungi da paragonarti a quel giornale ;), hai scritto parole in cui, ascoltando pian piano l'album, mi sono ritrovata, pur non avendo le capacità tecniche per esprimerle come te. Ma come fanno a mischiare tutti quei generi, quelle musiche, e soprattutto quelle parole??? Sono dei grandi! Grazie, grazie davvero!
p.s. Alfredo....mamma mia...
At 13 febbraio, 2008 19:18, Il_Marchese said…
Aver conosciuto i Baustelle attraverso Vanity Fair, oggettivamente, non ti rende Alain Delon; come non rende Alain Delon chi cantava questa canzone, guarda caso Francesco Bianconi.
Vedo la fine.
Ma: sono contento che la recensione ti sia piaciuta. Io i Baustelle li seguo praticamente da sempre, da quando appunto non erano nessuno. Ci sono stati quattro album prima di quest'opera... Non è questione di avere capacità tecniche per scrivere queste parole (tra l'altro, avrei potuto fare molto meglio), è questione di amare un certo modo di essere. Di averlo sempre amato. Di averlo sempre sentito drammaticamente mio.
Grazie a te per le parole che hai scritto.
At 16 giugno, 2008 15:06, Anonimo said…
ho solo 17 anni, e seguo i baustelle già da 2.. capire..conoscerli, scoprire ogni giorno la loro arte, le loro citazioni.. la moda del lento, il sussidiario, la malavita, amen..
angolazioni da cui vedere la realtà..sapori da assagiare lentamente per cogliere il vero gusto della vita.. canzoni che, da vere perle quali sono, lasciano una traccia, un marchio,quello unico, raffinato e inimitabile dei baustelle.. che sia l'inconfondibile voce del poeta Bianconi o quella della grande donna Rachele solo loro sanno come "lasciare un graffio in questo cielo" come nella loro omonima canzone..
At 17 giugno, 2008 01:37, Il_Marchese said…
Martina
hai un bel nome
hai una bella età
ti piace un bel gruppo
ma
lasciare un graffio in questo cielo
i baustelle non lo hanno mai scritto
ritenta
sarai piu' fortunata.
At 12 luglio, 2008 15:32, Anonimo said…
I bustelle no, ma l'hanno cantata nel cd di cover dedicato allal Garbo.
cmq mancano le sonorità di MAssara, i Baustelle i livelli della Moda del lento ormai li hanno persi.
Massara era un grande, Bianconi ha perso un 30 % di qualità cosi...mi dispiace dirlo, ma di certo il sussidiario e la moda del lento sono migliori sia della malavita che di Amen.
Amen lo reputo il meno bello di tutti i dischi.
Colombo non è un granche'
Charlie lasciamo stare. ( fa skifo)
Il liberismo è bella
Alfredo anche
ma il resto non è all'altezza dei precedenti album
bruttine dalla 10 in poi.
At 29 luglio, 2008 00:46, Il_Marchese said…
Se il tuo intento era strapparmi una bestemmia che mi pianterá nel cuore dell'inferno, ebbene, ci sei riuscita.
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