Cranes: la colonna sonora di ogni autunno
Credo di aver consumato abbastanza l'ultimo album dei Cranes, omonimo, per poterne parlare in modo razionale e logico.
Anche se la cosa non mi è sempre piacevole, mi vedo costretto a proporre un breve excursus della discografia band inglese, per far comprendere come il mio giudizio, nella sostanza, tradisca le previsioni di chi sosteneva che i veri dark stroncheranno senza pietà questo disco; i Cranes, portabandiera, campioni indiscussi senza dubbio alcuno del dream pop, con evidentissime citazioni Jesus and Mary Chain, Cure, My Bloody Valentine, Cocteau Twins, Bauhaus in forme delicate, sono sempre stati minimali, gotici, decadenti, epici, oscuri, e tutto fino allo sfinimento a volte, e per quanto mi riguarda vivono di rendita nelle mie scale di valore per alcune ragioni fondamentali: per Forever, l'album del 1993 di una bellezza rara, per la completezza antologica di Future Songs del 2001 e, last but not least, per aver aperto i concerti dei Cure per moltissimo tempo.
Intorno allo storicismo di questi fatti, la cronaca spiccia di Alison Shaw & company è stata costellata da episodi altalenanti: Loved e Wings of Joy alternano pezzi inascoltabili a buone intuizioni, e nella sostanza sono piu' che sufficienti, Self-Non-self è una confusione elettronica dilettantistica, Oreste ed Elettra è degno di idozer ma in senso negativo, la penultima fatica Particles and Waves mi deluse profondamente per la sua insignificanza.
Giova ricordare che uno dei punti forti della band di è dato dai dolori di pancia e dai lamenti senza senso che il cantato (?) di Alison Shaw, che è spesso la donna della mia vita anche se quando canta in francese mi vengono gli istinti omicidi, propina agli ascoltatori. In confronto quella ragazza di Catania della quale parlavo qualche post fa e che mai mi sogneró di citare in questo post, ché per guardare a distanza di almeno 100km la Shaw e tutti i nomi che finora ho fatto e che faró deve rinascere altre 30 volte e tre paralleli piu' in alto, ha la voce piu' banale della storia della musica italiana. L'unicità di Alison mi ha permesso alcune volte di situarla a lato della Frazer, senza discuterne limiti tecnici evidenti, ma a livello di fascino parlerei senza timore di smentita di straordinarietà quasi pari.
Da un altro punto di vista, il mio metro di giudizio sarà comunque sempre incentrato sul confronto, anche inconscio, con l'album principe della loro discografia, (come ho già detto) Forever. Forever é un giro di la orecchiabile ripetuto undici volte in undici salse diverse senza perdere neanche in una nota la peculiarità dream pop che permea tutto l'album, monocorde per antonomasia. E lungi da me criticare l'attitudine monocorde: credo che sia la nuova frontiera della musica, e tutte le band che piu' volentieri ascolto ormai costruiscono interi album su un pezzo forte che li ha spinti verso il firmamento. È gente che va avanti a demo per anni, e di colpo caga fuori un 4/4 banale e ripetitivo facendo copia-incolla del ritornello di una b-side qualsiasi dei Pixies e una strofa copiata dal lato B di un singolo dei Sonic Youth che ha venduto 6 copie nel 1991, e quando l'agente li obbliga a costruirci un album intorno (11 pezzi uguali in 11 salse diverse), ecco il botto previsto. Questo succede anche in Italia, i bau sono esplosi facendo copy-paste di canzoni che Jarvis Cocker nemmeno si ricordava, e le suonavano a montepulciano. Li ascoltavano in 20 e non se li filava nessuno. Poi li ha visti qualcuno di Baracca & Burattini e han pubblicato un album monocorde bellissimo. Li ascoltavamo in 300. Poi sono passati su MTV, ed eravamo 3000. Poi la EMI gli ha fatto pubblicare un album pessimo monocorde e sono diventati 500.000. Poi sono andati ad MTV e sono la band del momento. E tutti i gruppetti delle province italiane li imitano senza alcun pudore, senza accorgersi, pero', che ormai il giro è irrimediabilmente chiuso.
Il percordo è sempre uguale, consideriamo pero' che Forever risale al secolo scorso, quando le indie band non venivano fuori per un pezzo che il peer-to-peer designava come tendenza principale della stagione in meno di una settimana, e se il trend oggi è fare album tipo Shout Out Louds o MGMT o Bloc Party o Athlete o Keane o Interpol o Editors o Artic Monkeys (una band della provincia di Newcastle ha suonato al festival locale il copy-paste di cui sopra, un cazzone qualsiasi li nota, tale band firma per la Subpop e rimane nell'alveo indie un annetto-due, poi la vodaf*ne sceglie per la sua pubblicità d'autunno quel famoso copy-paste, firmano per la EMI e nascono gruppi cover dei Franz Ferdinand come funghi dopo la pioggia; e durano quanto i funghi dopo la pioggia, infatti) i Cranes ci erano arrivati venti anni fa.
E, ripeto, non ci vedo nulla di male in tutto questo, né mi lamento. I gruppi cover dei Joy Division, citati poco fa, sono il mio pane quotidiano e per anni ho bramato la cover band degli Smashing, e la mancanza di monocorde ormai m'è diventata sinonimo di confusione mentale, è per questo che il nuovo album degli Afterhours non potrá mai piacermi, non avendo punti di riferimento. Gli After sono stati new wave, post punk, post rock e le ballate per le piccole iene è stato un album delicato e nobile, direi il piu' bello della loro discografia, curato e di canzoni tutte uguali a giro mi-la-re. I milanesi ammazzano il sabato vuole dire molto, finisce per non dire nulla, senza uno straccio di linea guida.
E questo omonimo dei Cranes è strutturato in maniera così logica e coscienziosa che, per quanto di monocorde abbia poco, scorre in un crescendo musicale raffinatissimo. L'attacco con quel carillon, diró la verità, mi ha messo i brividi. Sapevo che se la Shaw avrebbe potuto fissarsi irrimediabilmente con quella roba e, in tal caso, sarei stato costretto ad intercettare tutte le copie del cd per buttarle nella fossa delle marianne e a strocare brutalmente i gotici di Portsmouth, cancellando per sempre dalla mia memoria qualsiasi loro traccia; e i primi due pezzi sono infatti basati su quel cazzo di carillon e su suoni strappati e voce da bambina del coro dell'antoniano; troppo esagerato, troppo pesanti le sperimentazioni, finché a 1 minuto e 23 secondi di Worlds ecco la svolta: chitarrone acustico e due accordi pieni, la meraviglia cranes in tutto il suo splendore, decadente, triste, alle lacrime, comincia il delicato lamento di Alison Shaw che ci conduce in un nuovo tappeto di suoni sempre piu' amaro e coinvolgente. Purtroppo il cazzo del carillon torna, e il minimalismo la fa da padrone in qualche pezzo seguente, ma anziché minare la qualità del tutto questa scelta conferisce al disco una dignità notevolissima. È il caso di Feathers, ma non di Wires, scarna ma ritmata, con una linea di chitarra riuscita che occulta il plin plin pesante e odioso, anche se il vero pezzo forte, indimenticabile, antologico, è Wonderful things, nomen omen, scala in crescendo profonda accompagnata dalla voce disperata e única della Shaw, quattro minuti di batticuore in acustico o con un filo di distorsore, senza batteria, un inno triste e decadente, da ascoltare in silenzio religioso, tanto quanto il pezzo immediatamente successivo, Collecting Stones, una melodia d'altro mondo, su un'aria alla Paris and Rome, altro grande classico dei nostri, ma con una convincentissima Alison, triste e sussurrante. Il disco è un continuo crescendo da Panorama in poi, sostanzialmente, trova sempre piu' concretezza, omogeneità, nonostante il paesaggio sia etéreo come negli episodi piu' riusciti dei Cranes. Invisible è l'ultima canzone senza batteria, che ritorna invece in Move Along, anch'essa minimale e melodica, notturna, "acquatica" come Sleepwalking, pezzo strumentale, fino alla chiusura secondo la prospettiva shoegaze dei Cranes, un antologico esempio dei pilastri della loro musica, l'essenza piu' pura del dream, chorus e delay su un giro ripetuto all'infinito, High and Low.
L'omonimo dei Cranes in sostanza è un viaggio sperimentale e minimale, un'esperienza nuova ma strenuamente onirica, proposta applicando suoni diversi alle peculiarità tipiche della loro musica, arricchendola dunque, ed innovandola. Qualcosa che mi ha stupito e felicemente sorpreso, i campionamenti e il carillon sono ben dosati e la voce di Alison è sempre quel valore melodico aggiunto, uno strumento único, l'elemento fondamentale dell'ennesimo viaggio surreale di una band decadente e matura, che si riscatta dagli episodi precedenti meno fortunati e anche senza raggiungere quelle vette che forse l'autoreferenzialità loro endemica non gli permetterà mai di attingere dimostra di essere attiva, razionale, coraggiosa e capace di comunicare ancora molto, di dover e poter aggiungere diversi altri capitoli al mondo barocco che ha creato, del quale ha eretto le piu' solide fondamenta e sul quale, come questo disco ancora una volta testimonia, regna con pochi contrasti, e sopratutto con indiscutibile merito.
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