As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

martedì, agosto 18, 2009

Addio

Mi stupisco come abbia sempre bisogno di qualcun altro, nella fattispecie il mio migliore amico, per capire cose evidenti. Di me stesso.
Per quale recondita ragione dovrei continuare a raccontarvi i cazzi miei?
Questo blog chiude.
Grazie, a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggerlo.

giovedì, agosto 06, 2009

Apologia di un calabrese atipico


Mi sono ripromesso di non lanciarmi in accuse sperticate sullo stato di paralisi sociale del mio paese (non Paese, quella è un’altra storia, con lo stesso incipit, pero’); dopo anni di osservazione e paragoni mi sento sempre piu’ profondamente convinto che il vero ed unico problema dell’atrofia nella quale l’intera mia regione si trova sia quasi unicamente e solo la totale mancanza di confronto con altre realtà, altre popolazioni, altre culture. Sembra notevolmente assurdo, visto che dalla calabria sono veramente passati tutti i popoli del mondo e questo lembo di terra sia abitato da ormai piu’ di 12000 anni, ma lo stato di arretratezza e il radicato senso di parassitismo, disonestà, immobilismo culturale e chiusura mentale che continua a caratterizzarne gli abitanti mi obbliga a dedicare almeno qualche riga al mio sdegno incontenibile. Qualsiasi sforzo risulta inutile e inconcludente: la mancanza di riflessione anche su fatti evidenti e chiaramente tesi a ledere il bene non solo collettivo ma anche personale dell’individuo è qualcosa di sconfortante e scoraggiante. Con tutta la possibile buona volontà del mondo, non si puo’ sperare di mostrare ad una persona bendata la temperatura dei colori del quadro piu’ variopinto che esista; né si puo’ sperare che chi assume deliberatamente una vista in scala di grigi possa mai capire le sfumature di un dettaglio arcobaleno. Per quanto possano essere spiegate con le parole piu’ coinvolgenti e profonde che un essere umano puo’ trovare. Questa terra va verso l’implosione, si chiude sempre piu’ su sé stessa, e tra cento anni vedo queste case già cadenti finalmente deserte e abbandonate, perché questo è il destino che meritano, che ci siamo scritti con le nostre mani, con le nostre penne, con i nostri inchiostri: la Calabria è morta perché i calabresi hanno permesso che questo succedesse. Perché gli abusi, mafiosi e non, e perpetrati da mafiosi e non, sono passati impuniti e legittimati dal silenzio e dal tacito avallo di tutta la popolazione, e per intere generazioni. Tre anni e otto mesi lontano da qui non hanno fatto che peggiorare le mie prospettive, e lungi da me sputare sulla terra nella quale sono cresciuto e nella quale ho imparato a vivere. Solo, il mio modo di vedere le cose è ormai così distante da questa realtà che non riesco veramente piu’ a farne parte; avrei sperato che la tipica arroganza lisboeta, che ormai dovrei aver fatto propria, mi fosse venuta in soccorso, in queste poche ore di permanenza già deleterie per le mie residue speranze di rinascita calabra, per ignorare solennemente le piccole invidie, i giochi da bambini, la costante sensazione di incompiuto che incombe sulle nostre spalle; e invece no: invece mi sento così profondamente sconfitto e inadeguato che vorrei solo dover scomparire dagli occhi di questa gente, non dover mai piu’ riapparire, affondare in uno di questi vicoli deserti lasciando per sempre ogni traccia di questo dolore profondo che mi sento dentro e che mai riuscirò a cancellare, collassare nell’indifferenza generale insieme a queste case e a queste mura fradice di sconfitte e vergogne e silenzi, travolgere un passato recente inutile e pleonastico, morire come questo paese tremendo e fallimentare.
E tra qualche centinaio d’anni essere dimenticato anche dalle perfette mappe satellitari di google.
La Calabria era una terra bellissima, dirà wikipedia, un deserto di mari e montagne brulle e sterminate, dove si parlava una lingua dall’incedere greco che lasciava trapelare una storia antica nobile e ormai decaduta. Per colpa dei suoi stessi abitanti.
Qualcuno forse racconterà la storia triste e vergognosa della caduta del mio popolo, non saranno i miei figli, ché non ne avrò, per il semplice fatto di sentirmi incapace di essere così sciaguratamente temerario da affidargli questo stesso fardello che mi porto sulle spalle, che per quanto sempre esibirò con orgoglio nel mio accento pianigiano ovunque mi troverò a doverlo difendere, non ha altro colore che quello della nera sconfitta e del grigiore quotidiano dell’abbandono al quale ci siamo consegnati da tempo immemore; sono fiero di essere come sono, sono calabrese e insieme a tutti i miei corregionali sono un eroe a potermelo ancora permettere. Ma non è qui che potrò mai sentirmi felice.

E non mi va veramente di raccontarmi i cazzi miei, stavolta. Da quando sono tornato, poche ore fa, ho solo continuato ad accumulare scatole di rifiuti: libri di scuola, giocattoli della mia infanzia, fumetti dimenticati, collezioni di figurine, persino cd e videocassette. My first Sony, un walkman di almeno ventitré anni fa, l’ho tenuto con me, insieme a poche altre cianfrusaglie: il resto è andato via, perseguendo testardamente in un’attività che ormai va avanti da qualche mese senza alcuna pausa, sopratutto per impedirmi di pensare anche solo per un attimo al passato, al presente, al futuro che mi aspetta.
Sto recidendo ogni radice.

Ogni giorno è novembre e la mia anima non ha mai avuto un cielo così plumbeo: eppure sono in pace, sento un profondo silenzio attorno, sento di non dovere spiegazioni, sento di non dovere piu’ soffrire. Saranno gli ultimi colpi di coda del decennio dei 20 anni: vedo frotte di coetanei correre disperatamente contro il tempo per cancellare la solitudine; io continuo ad abbracciarla, stoicamente, con fierezza, con dignità e con strenua passione. Voglio il mio angolo dentro me stesso, sono stanco delle delusioni degli altri: ho tante cose da vedere e tanti squarci decadenti dei quali innamorarmi da non avere il tempo e la pazienza né tantomeno la necessità di crearmi un tessuto sociale e banale al quale aggrapparmi.
Lasciatemi qui, con i miei sogni banali e ricorrenti, con le mie parole indifferenti a tutto se non a me stesso, ad affondare dentro e collassare insieme e solo a queste stupide e fradice case.