As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

giovedì, ottobre 23, 2008

Cranes: la colonna sonora di ogni autunno


Credo di aver consumato abbastanza l'ultimo album dei Cranes, omonimo, per poterne parlare in modo razionale e logico.
Anche se la cosa non mi è sempre piacevole, mi vedo costretto a proporre un breve excursus della discografia band inglese, per far comprendere come il mio giudizio, nella sostanza, tradisca le previsioni di chi sosteneva che i veri dark stroncheranno senza pietà questo disco; i Cranes, portabandiera, campioni indiscussi senza dubbio alcuno del dream pop, con evidentissime citazioni Jesus and Mary Chain, Cure, My Bloody Valentine, Cocteau Twins, Bauhaus in forme delicate, sono sempre stati minimali, gotici, decadenti, epici, oscuri, e tutto fino allo sfinimento a volte, e per quanto mi riguarda vivono di rendita nelle mie scale di valore per alcune ragioni fondamentali: per Forever, l'album del 1993 di una bellezza rara, per la completezza antologica di Future Songs del 2001 e, last but not least, per aver aperto i concerti dei Cure per moltissimo tempo.

Intorno allo storicismo di questi fatti, la cronaca spiccia di Alison Shaw & company è stata costellata da episodi altalenanti: Loved e Wings of Joy alternano pezzi inascoltabili a buone intuizioni, e nella sostanza sono piu' che sufficienti, Self-Non-self è una confusione elettronica dilettantistica, Oreste ed Elettra è degno di idozer ma in senso negativo, la penultima fatica Particles and Waves mi deluse profondamente per la sua insignificanza.

Giova ricordare che uno dei punti forti della band di è dato dai dolori di pancia e dai lamenti senza senso che il cantato (?) di Alison Shaw, che è spesso la donna della mia vita anche se quando canta in francese mi vengono gli istinti omicidi, propina agli ascoltatori. In confronto quella ragazza di Catania della quale parlavo qualche post fa e che mai mi sogneró di citare in questo post, ché per guardare a distanza di almeno 100km la Shaw e tutti i nomi che finora ho fatto e che faró deve rinascere altre 30 volte e tre paralleli piu' in alto, ha la voce piu' banale della storia della musica italiana. L'unicità di Alison mi ha permesso alcune volte di situarla a lato della Frazer, senza discuterne limiti tecnici evidenti, ma a livello di fascino parlerei senza timore di smentita di straordinarietà quasi pari.

Da un altro punto di vista, il mio metro di giudizio sarà comunque sempre incentrato sul confronto, anche inconscio, con l'album principe della loro discografia, (come ho già detto) Forever. Forever é un giro di la orecchiabile ripetuto undici volte in undici salse diverse senza perdere neanche in una nota la peculiarità dream pop che permea tutto l'album, monocorde per antonomasia. E lungi da me criticare l'attitudine monocorde: credo che sia la nuova frontiera della musica, e tutte le band che piu' volentieri ascolto ormai costruiscono interi album su un pezzo forte che li ha spinti verso il firmamento. È gente che va avanti a demo per anni, e di colpo caga fuori un 4/4 banale e ripetitivo facendo copia-incolla del ritornello di una b-side qualsiasi dei Pixies e una strofa copiata dal lato B di un singolo dei Sonic Youth che ha venduto 6 copie nel 1991, e quando l'agente li obbliga a costruirci un album intorno (11 pezzi uguali in 11 salse diverse), ecco il botto previsto. Questo succede anche in Italia, i bau sono esplosi facendo copy-paste di canzoni che Jarvis Cocker nemmeno si ricordava, e le suonavano a montepulciano. Li ascoltavano in 20 e non se li filava nessuno. Poi li ha visti qualcuno di Baracca & Burattini e han pubblicato un album monocorde bellissimo. Li ascoltavamo in 300. Poi sono passati su MTV, ed eravamo 3000. Poi la EMI gli ha fatto pubblicare un album pessimo monocorde e sono diventati 500.000. Poi sono andati ad MTV e sono la band del momento. E tutti i gruppetti delle province italiane li imitano senza alcun pudore, senza accorgersi, pero', che ormai il giro è irrimediabilmente chiuso.

Il percordo è sempre uguale, consideriamo pero' che Forever risale al secolo scorso, quando le indie band non venivano fuori per un pezzo che il peer-to-peer designava come tendenza principale della stagione in meno di una settimana, e se il trend oggi è fare album tipo Shout Out Louds o MGMT o Bloc Party o Athlete o Keane o Interpol o Editors o Artic Monkeys (una band della provincia di Newcastle ha suonato al festival locale il copy-paste di cui sopra, un cazzone qualsiasi li nota, tale band firma per la Subpop e rimane nell'alveo indie un annetto-due, poi la vodaf*ne sceglie per la sua pubblicità d'autunno quel famoso copy-paste, firmano per la EMI e nascono gruppi cover dei Franz Ferdinand come funghi dopo la pioggia; e durano quanto i funghi dopo la pioggia, infatti) i Cranes ci erano arrivati venti anni fa.

E, ripeto, non ci vedo nulla di male in tutto questo, né mi lamento. I gruppi cover dei Joy Division, citati poco fa, sono il mio pane quotidiano e per anni ho bramato la cover band degli Smashing, e la mancanza di monocorde ormai m'è diventata sinonimo di confusione mentale, è per questo che il nuovo album degli Afterhours non potrá mai piacermi, non avendo punti di riferimento. Gli After sono stati new wave, post punk, post rock e le ballate per le piccole iene è stato un album delicato e nobile, direi il piu' bello della loro discografia, curato e di canzoni tutte uguali a giro mi-la-re. I milanesi ammazzano il sabato vuole dire molto, finisce per non dire nulla, senza uno straccio di linea guida.

E questo omonimo dei Cranes è strutturato in maniera così logica e coscienziosa che, per quanto di monocorde abbia poco, scorre in un crescendo musicale raffinatissimo. L'attacco con quel carillon, diró la verità, mi ha messo i brividi. Sapevo che se la Shaw avrebbe potuto fissarsi irrimediabilmente con quella roba e, in tal caso, sarei stato costretto ad intercettare tutte le copie del cd per buttarle nella fossa delle marianne e a strocare brutalmente i gotici di Portsmouth, cancellando per sempre dalla mia memoria qualsiasi loro traccia; e i primi due pezzi sono infatti basati su quel cazzo di carillon e su suoni strappati e voce da bambina del coro dell'antoniano; troppo esagerato, troppo pesanti le sperimentazioni, finché a 1 minuto e 23 secondi di Worlds ecco la svolta: chitarrone acustico e due accordi pieni, la meraviglia cranes in tutto il suo splendore, decadente, triste, alle lacrime, comincia il delicato lamento di Alison Shaw che ci conduce in un nuovo tappeto di suoni sempre piu' amaro e coinvolgente. Purtroppo il cazzo del carillon torna, e il minimalismo la fa da padrone in qualche pezzo seguente, ma anziché minare la qualità del tutto questa scelta conferisce al disco una dignità notevolissima. È il caso di Feathers, ma non di Wires, scarna ma ritmata, con una linea di chitarra riuscita che occulta il plin plin pesante e odioso, anche se il vero pezzo forte, indimenticabile, antologico, è Wonderful things, nomen omen, scala in crescendo profonda accompagnata dalla voce disperata e única della Shaw, quattro minuti di batticuore in acustico o con un filo di distorsore, senza batteria, un inno triste e decadente, da ascoltare in silenzio religioso, tanto quanto il pezzo immediatamente successivo, Collecting Stones, una melodia d'altro mondo, su un'aria alla Paris and Rome, altro grande classico dei nostri, ma con una convincentissima Alison, triste e sussurrante. Il disco è un continuo crescendo da Panorama in poi, sostanzialmente, trova sempre piu' concretezza, omogeneità, nonostante il paesaggio sia etéreo come negli episodi piu' riusciti dei Cranes. Invisible è l'ultima canzone senza batteria, che ritorna invece in Move Along, anch'essa minimale e melodica, notturna, "acquatica" come Sleepwalking, pezzo strumentale, fino alla chiusura secondo la prospettiva shoegaze dei Cranes, un antologico esempio dei pilastri della loro musica, l'essenza piu' pura del dream, chorus e delay su un giro ripetuto all'infinito, High and Low.

L'omonimo dei Cranes in sostanza è un viaggio sperimentale e minimale, un'esperienza nuova ma strenuamente onirica, proposta applicando suoni diversi alle peculiarità tipiche della loro musica, arricchendola dunque, ed innovandola. Qualcosa che mi ha stupito e felicemente sorpreso, i campionamenti e il carillon sono ben dosati e la voce di Alison è sempre quel valore melodico aggiunto, uno strumento único, l'elemento fondamentale dell'ennesimo viaggio surreale di una band decadente e matura, che si riscatta dagli episodi precedenti meno fortunati e anche senza raggiungere quelle vette che forse l'autoreferenzialità loro endemica non gli permetterà mai di attingere dimostra di essere attiva, razionale, coraggiosa e capace di comunicare ancora molto, di dover e poter aggiungere diversi altri capitoli al mondo barocco che ha creato, del quale ha eretto le piu' solide fondamenta e sul quale, come questo disco ancora una volta testimonia, regna con pochi contrasti, e sopratutto con indiscutibile merito.

lunedì, ottobre 20, 2008

Ah, fossi un decoratore d'interni... #7

Ci tengo ad annunciarvi che ho pronto un post sull’ultimo album dei Cranes di una lunghezza raggelante, ma prima di proporlo (a giorni), mi sento in dovere, dato anche il titolo del post e l'incapacità di mancare di rispetto a professione sí tanto encomiabile per i destini del genere umano, di parlarvi del concerto di questa sera.
Sono stato a vedere i dEUS all’Aula Magna, dopo circa tre anni dall’ultimo concerto, con la paura tangibile di dover incontrare Filipa con fidanzato al seguito.

Filipa mi aveva minacciato del resto: aos dEUS em principio deveria andar e così, dopo che mi aveva addirittura promesso i cure un milione di anni fa, mi sono imbarcato da solo alle 19.30 in una Lisbona deserta con un chiodo fisso, che mi assillava da circa un mese. Ma ci sarà Filipa? E se la incrocerò, cosa succederà? Moriró d’infarto quando mi chiederà tudo bem, dopo avermi mostrato, da dietro la sua frangia millimetrica (Filipa ogni quindici minuti ha il bollino della TagHeuer che le compare, come nelle gare di formula uno, in sovraimpressione per 4 secondi sulla tempia sinistra), il sorriso piu’ malizioso e furbo e sensuale e incantevole dell’intera Europa Occidentale nella città piu’ romantica della penisola iberica, che per quanto nessuno possa mai sapere quanto possa essere falso è sempre uno dei gesti piu’ affascinanti che mi abbiano visto direttamente coinvolto negli ultimi dieci anni? O inizierò a tremare senza riuscire a reggermi in piedi?

A Saldanha, una notizia di quelle che ti ricordano, se mai ne avessi ancora bisogno, che ai portoghesi le loro caratteristiche interessa sempre metterle in mostra: la stazione di Saldanha è chiusa al fine settimana.
Non lo sapevi? Non lo sapeva nessuno, ma a noi lusitani piacciono queste sorprese, sono ideali per frustrarci un po’ di piu’.

Comincia bene, sento che Filipa starà sull’uscio ad aspettarmi solo per muovere la mano e salutarmi da lontano, guarda che lo faccio per favore. Salgo su fino a Campo Grande, abbandono il canarino, entro in metro, aspetto con andare ostentato indispettito da true italian un treno di frange brune alte un metro e quaranta centimetri col sorriso assassino che mi raggiunge e mi carica fino a Cidade Universitaria. Torvo, sguardo dritto alla punta degli anfibi, non oso affrontare una sola frangia finché con la coda nell’occhio scorgo da lontano che no, nessuna di loro puo’ essere Filipa, per una serie di ragioni che mi sono già sfuggite. Tranquillizzatomi, una folla discreta mi si palesa di fronte all’Aula Magna a conversare, bere birra, fumare una sigaretta in attesa di entrare, e, con la velocità di un centometrista, mi infilo dentro la location del concerto senza nemmeno guardare in faccia la maschera.

La tipa del merchandising ha una frangia perfetta, è mora, non certo alta, sorride a tutti, mostra un po’ la tetta (qualcuno ricorderà la storia della tetta del liceo? E poi Filipa ce l’ha scritto in faccia vado sul sicuro, mostro la tetta) se ce n’è bisogno. Potrebbe benissimo essere Filipa, meglio entrare dentro senza pensare a spillette e cazzate del genere, che c’hai quasi vent()anni, e mi accomodo lasciando libero un posto tra me e il mio vicino del lato già occupato, da true italian in largo spazio, dopo ovviamente aver scelto la fila piu’ lontana da frange e simili. Come se fosse facile, di fronte a me si trovano due frange bassine, una col fidanzato di due metri e l’altra tutta sola, dal fisico snello e molto loquaci. Da un momento all’altro una di loro dovrebbe voltarsi e dirmi “António, tu também tás aqui?!” con quell’accento algarvio che il sottotitolo in italiano viene fuori con un leggero ritardo, mica c’ho la tag heuer sulle tempie, io, è tutto occupato dal monumento ai caduti, e che mi pianterà una lama nel cuore spezzandomelo senza piu’ possibilità di ricucirlo.

E invece no, le frange sono due innocue lisboete universitarie, dagli occhi chiari per giunta, e mi rilasso ancora di piu’ quando al mio fianco si siede un perfetto nerd che funziona come cortina di ferro dal lato destro.
Un altro esercito di frange si siede dietro di me. All’inizio è impossibile verificare la presenza fisica della mia ossessione, solo dopo uno sforzo immane fingo di aver sentito un qualche boato e mi volto di scatto inquadrando quattro su cinque delle incriminate: Roger, sono tutte di terza superiore, Filipa non c’è. Ma quella dietro di me? Quella che non ho visto?

Ha i capelli rossi, ma Filipa non la vedo da quindici giorni, magari si è tinta e non mi ha detto niente; magari ha una cugina minorenne e visto che ha litigato col tipo al concerto ci è andata con lei e le sue indieamiche; magari la voce è diversa perché ha il raffreddore… rimungino per buoni quindici minuti, finché il patrono di Lisbona non mi illumina e tentando senza riuscire di mostrare indifferenza osservo la tizia alle mie spalle ruotando di colpo su me stesso.

Potrebbe essere tutti, tranne che Filipa, Non è manco portoghese. Sono un coglione.

Adesso, pero', Filipa vorrei vederla. Vorrei scorgerla da lontano, ora che sono al sicuro. Vorrei vederla e fingere di non vederla, sperando che lei non mi noti, ammirare le sue espressioni, le sue reazioni al concerto, il suo rapporto con il tizio col quale ha cominciato a darsi la mano troppo tempo fa. Vorrei guardarla sussurrare Little Arithmetics, chissà quante volte l’avrá fatto, e io nemmeno per quattro minuti e sedici ho potuto ammirare l’incanto del suo abbandono, alla musica, al tempo, alle distanze, alla vita e alla morte.
O magari che mi noti, e che mi prenda in giro con un sorriso dei suoi.

E il concerto comincia. Barman e Pawlowsky sono sempre lí, in forma, sono cambiato molto piu’ io di loro negli ultimi tre anni, il bassista è lo stesso, chi si ricorda come si chiama, lo trovo meglio, il batterista mi sembra nuovo, il tipo che suonava il moog, che questa volta non hanno portato, è sempre piu’ scarso col suo violino suonato a mó di basso. Pawlowsky si confonde, qualcuno va fuori tempo, Barman ride e dice stronzate, come sempre i dEUS la serata tra amici te la garantiscono sempre.

Mi guardo intorno, e Filipa non c’è. Giú, magari ora che è importante trova i contatti giusti e si siede nelle prime file, su, nei palchetti, ma niente.
Smetto di contare gli errori e comincio a ballare pure io. I dEUS sono forti, sono rock molto alternativo, molto melodido, pop, garage, un bel mix, poi li ho sentiti spesso grezzi stasera, incazzatelli, un buon concerto anche se l’acustica dimentichiamola.

Parte anche Little Arithmetics, decido semplicemente di chiudere gli occhi. Non sarà oggi che vedró Filipa canticchiarla, non sarebbe nemmeno giusto. Credo, non so.
Pero’ lei sará lì dietro, lo spero, la starà ascoltando. Almeno una volta con me, anche se lei non lo sa e forse mai lo saprà, l’avrá ascoltata, alla fine di questa notte.
Non mi permetto di canticchiarla neanch’io, mi riesce bene scomparire, cambiare scena, un primo piano a mezzo schermo sulla tipa dei biglietti che nemmeno sa chi sono i dEUS, che ha appena ricordato di avere ascoltato questa canzone un’estate di qualche anno fa a Tavira, forse l’anno che Thuram si ricordò di condannare i lusi, suo padre aveva affittato una casa e ricorda di avere conosciuto una ragazza che poi seppe si spostò a Lisbona per l’università.

Ed eccola la sua ragazza, la nostra protagonista: lì, in mezzo alla sala, in una fila distante (si sa, la spocchia di Filippa l'avrá fatta arrivare con 30 minuti di ritardo, la mia, di spocchia, me l'avrebbe pure fatto fare, ma calcolando le possibilità di incontrarla ho preferito l'anticipo svizzero), sta canticchiando Little Arithmetics mentre il tipo la sta abbracciando, sfiorandole la nuca e poi i fianchi, e lei sorride, gli sorride senza mai nascondere la malizia della dolcezza dei suoi occhi neri e grandi, interrogandolo sul destino e sulle congiunture astrali che li hanno messi insieme, mentre lui l’abitudine l’ha già fatta, e la liquida mostrandole i denti bianchi del tipo a posto.
Stai tranquilla, sistemo quella credenza dietro il tavolone e tutto torna in ordine.

Finché la piu’ piccola delle tre non proverà, sciaguratamente, a tagliare la torta, e solo ora mi rendo conto della vera ragione per la quale ho scelto la maglia dei Death Cab for Cutie per andare ai dEUS.

Il concerto finisce, scappo velocemente verso Campo Grande, senza piu’ vedere frange ovunque, finisce il servizio metro, finisce il turno la guardia della Carris, finisce anche questo fine settimana.
Un tunnel mi conduce a casa; un parcheggiatore abusivo, due amici barcollanti, quattro
benfiquisti deLusi (non è un refuso).

Dicono che Pessoa facesse il contabile.
Non so, e poi non me ne intendo di poesia, ma non mi risulta che Ungaretti sia mai stato un decoratore d’interni.

giovedì, ottobre 09, 2008

La famiglia Gallagher e la scoperta della dignità


Alla fine di quest'anno pieno per lo piu' di belle sorprese, tra gli album piu' graditi situerò con certezza assoluta Dig Out Your Soul, dei miei sempre favoriti Oasis.

Sembra strano anche a me, ma, da queste parti, colpevolmente e raramente tributo grande e giusta attenzione ad una delle band comunque piu' importanti della mia vita, non è un mistero che io fossi dalla parte dei Gallagher ai tempi dell'esplosione del brit, che seguî da vicino, in diretta, e con grande entusiasmo.

Già nel 2005 all'uscita dei fratelli di Manchester, Don't believe The Thruth, dedicai parole di tributo e rispetto, non che l'album fosse grande cosa, ma se dopo Be Here Now (incluso) abbiamo principalmente ricevuto delusioni, il nuovo/vecchio corso iniziato con l'uscita di tre anni fa non prometteva scintille, ma sicuramente ci mostrava una dignità che invece pareva si andasse smarrendo album dopo album.

Nessuno puo' negare che Morning Glory sia stato uno dei dischi piu' importanti della storia del pop, come del resto Definitely Maybe è un capolavoro immortale, e a chi ha scritto questi album non è giusto né obiettivo chiedere sforzi di originalità, o di stupire ogni volta l'intero mondo con effetti speciali. Gli Oasis, sostanzialmente, che abbiano o meno avuto l'approvazione dei fan o il conforto dei botteghini, non hanno mai smesso di fare brit pop: e anche se io mi sono spesso permesso il lusso di accusare addirittura anche Gibbard di scarsa sperimentazione, non ho mai usato muovere grosse lamentele al duo Gallagher; gli Oasis hanno inventato un genere, anzi, diciamo che lo hanno incarnato (come dicevo qualche post fa, tanto quanto gli Alice hanno incarnato il grunge) e hanno continuato a fare la loro musica, innovandola forse scarsamente, ed è normale che se raggiungi al secondo album un picco che centinaia di persone hanno inseguito una vita e sono morte senza mai nemmeno riuscire a scorgerlo entri un secondo dopo in parabola discendente, ma un passo alla volta sono comunque risaliti fino all'ascoltabilità di Dont't Believe... e al buon disco che in questo 2008 ci presentano.

Chi ha pubblicato Definitely Maybe e Morning Glory non há piu' nessun tipo di obbligo nei miei confronti, né tantomeno nei confronti della musica.

La base brit, in ogni caso, non si nasconde mai, in quello che sostanzialmente è un album permeato da diverse sonorità che mai mi sarei aspettato di ascoltare da loro, addirittura facendomi dubitare, al primo ascolto, della paternità stessa dei pezzi che avevo -ehm…- scaricato -ma tanto lo compro-, se la chitarra di Bag It Out e di the Nature of Reality è piu' americana che albionica, fin troppo americana, pare quella merda ineffabile di lenni creviz, strano per un gibsonista qual è storicamente Noel. E mentre nel pezzo che appena citato l'inganno viene svelato da Liam che trascina piu' marcatamente il suo lamento per imprimere il marchio di fabbrica Oasis, la canzone d'entrata mi ha incuriosito tanto da consumare avidamente il resto dell'album. The Turning è un pezzo forte, rockeggiante, molto aspro, Waiting for the Rapture vorrebbe esserlo, con quella distorsione aggressiva, ma ovviamente se poi ci metti una melodia morbida ti vien fuori una canzone da Oasis prima maniera, e chapeau, The Shock of the Lightning è certamente il singolone, suono convincente, canzone perfetta, pioggia, confusione, cielo grigio, pub affollati e luci soffuse, periferia di Manchester; una cartolina illustrata dell'Inghilterra e un greatest hits Oasis. Ben gradito, come anche I'm Outta Time, la tristona che fará innamorare quelli che ai tempi di definitely non erano ancora nati e Live Forever alla radio non la potevano ascoltare, e per quanto mi riguarda un pezzo così maiuscolo dai Gallagher non lo ascoltavo veramente da almeno 12 anni.

E poi una maturità diversa, fatta da arrangiamenti nuovi, forse, in Falling Out -che propone addirittura la convivenza di orchestra e distorsori forti- e in To Be Where There's Life, nelle quali si rallenta molto e ci si guarda allo specchio e ci si contempla, non direi che si tratta di essere a corto di idee, ma se ti affacci dalla finestra della cameretta per la prima volta dopo 20 anni vedrai tutto sempre con uno sguardo fin troppo miope. Sono suoni ripetuti, già ascoltati, giá metabolizzati e dimenticati, siamo al non giudicabile, mentre la tirata vigorosissima d'orecchi la sfodero per Ain't Got Nothin', che era un'idea sonora da enciclopedia del brit e alla quale i Gallagher hanno palesemente tagliato le palle in maniera del tutto e scellerata.
Paura della ripetitività? Paura della critica?
Non credo, direi piu' paura di loro stessi, di ritrovarsi di nuovo rinchiusi nella cameretta di cui sopra.

Perché è sostanzialmente il senso di quello che sto scrivendo: gli Oasis stanno cominciando a sperimentare, e se lo sono autoimposto in maniera così ossessiva che quando dovrebbero impastare il pane con la stessa ricetta di sempre per tirare fuori che ne so, non dico una Columbia, ma una Magic Pie, quasi se ne vergognano e si tarpano le ali. Ché anche la chiusura, Soldier On, è un pezzo che poteva vivere una storia diversa se l'avessero scritto nel 1994.

Ma non è il caso di recriminare piu' di tanto. L'album corre veloce, non è da primi dieci dell'anno, non è forse nemmeno degno del top 20 ma solo a causa della concorrenza molto forte, è gradevole, promettente, diverso, onesto e grezzo. Sembra una raccolta di jam sessions, eppure rimane comunque un album da gruppo al crepuscolo, sebbene con questo crepuscolo i fratelli Gallagher ci stanno dimostrando che finalmente stanno cominciando a saperci convivere. È quel che auguro, a loro e anche a me, tanti anni e tanti album ancora ben confezionati, come questi ultimi due, che non voglio definire sottotono, ma gradevoli, degni di essere comunque ascoltati piu' volte, e finalmente accostabili a quell'ispirazione che negli anni '90 gli ha messo il mondo ai piedi.
Imparare a convivere al meglio con quel macigno enorme che è Wonderwall e tutto cio' che le gira intorno; dimostrare che la Gibson al chiodo non farebbe bene a nessuno appenderla; apprezzare, della tristezza del crepuscolo, le luci piu' affascinanti.
Dig Out Your Soul: un barlume di speranza.

venerdì, ottobre 03, 2008

Davanti al rischio c'è chi rinuncia, indipendentemente da ciò che cerca.


Tra Mario e Luigi sceglievo sempre quello vestito di verde.
Come del resto ho scelto il verde Sporting al rosso B*nfica, è come la storia della marmellata e del cioccolato, ma non vi inganni l’incipit, anche stavolta si parla di musica e apologie adolescenziali.

Sì, perché finalmente è arrivata la mia stagione preferita dell’anno (è diverso dal mese, attenzione…), il fresco ottobre precede la meraviglia decadente del Santo e Venerato Novembre, e ovviamente si riprendono i dischi piu’ antichi.

È da un po’, per esempio, che vado dalle parti di Seattle (e chi mai se n'è staccato, chiedetevi da dove viene Ben Gibbard), recuperando, tra l’altro, alcune cose che ai tempi mi sfuggirono, aggiungendoci una consapevolezza musicale completamente diversa, il che mi fa valutare e rivalutare intere discografie.
Non cambiando, pero’ i giudizi di fondo: a distanza di 15 anni, avrei continuato a scegliere i Soundgarden, per estro, violenza, classe, esibizionismo, attitudine, completezza, duttilità. Se i Pearl Jam avevano delle ballate insuperabili, anche i Soundgarden ne facevano di ottime. Se i Nirvana erano straordinariamente melodici, anche alcuni pezzi dei Soundgarden svolgevano benissimo il loro ruolo pop. Se gli Alice erano decadenti, violenti, sporchi, forse il vero esempio e sublimazione del grunge, l’incarnazione piu’ pura di sicuro, i Soundgarden sapevano anche essere questo.
E a livello di voce, parlatemi dell’immortale Cobain, dello splendore accecante di Layne Staley, della particolarità nasale di Vedder, ma veramente Chris Cornell (di quegli anni) era Dio in terra, non per niente si chiama Cristo. Chris aveva tutto, e non si faceva mancare niente. E non per niente, nel supergruppo la lead voice era la sua.
Eppure, cosa che stupirà, parlerò di un altro cd di quegli anni, Due Parole, di Carmen Consoli.

Molti pensano che io odi Carmen Consoli, o che non ne abbia stima, o che non le tributi un qualche merito.
In realtà la Consoli di meriti ne ha pochissimi, ha importato un certo cantautorismo femminile in Italia, ma quel pop noise (sì, è forte, pero’ giuro che io in Mediamente Isterica ho sentito piu’ di un plagio eclatante dei Sonic Youth) sempre timido e poco improvvisato l’ha sempre relegata in un limbo né buoni né cattivissimi, riservato a pochissimi, come molti sapranno e immagineranno data la mia forte linea di demarcazione (aut mi piace aut è merda irrimediabile), ascoltabilissima, godibilissima, ho piu’ d’un originale a casa, ma dell’originalità la Consoli, permettetemi, non porta certo la palma del migliore. Pero’ questo limbo autoimpostosi (notate, come i cantanti italiani promettenti che non nego definisca occasioni buttate al vento abbiano sempre esercitato un discreto fascino su di me, un esempio è Grignani, Campi di Pop Corn è uno dei pochissimi album grunge usciti in Italia e poi il buio – cit. non casuale) dopo la fragorosa caduta di vendite dovute a Mediamente Isterica (infatti per sbolognare quelle avanzate - dopo che Confusa e Felice ne vendette 150.000 secondo voi quante ne stamparono per Mediamente Isterica, che ne vendette la metà?- hanno pubblicato un’edizione deluxe uscita il primo settembre, per il “decennale”. E sì, perché di solito gli album che non vendono un cazzo sono da celebrare. Andatevene affanculo discografici dei miei coglioni) di cui sopra non le ha mai permesso di sedersi accanto ai Timoria, tipo.

Eppure la Consoli andava bene. Aveva presentato a Sanremo, con mio sommo sbigottimento visto che avrebbe dovuto portarci Fino all’Ultimo, mentre la mia preferita era Un sorso in piu’, l’omonima di quell'album, Confusa e felice, e diventata un cavallo di battaglia che le permise di scalare classifiche facendo due gradini alla volta, ed era esplosa, con una classe cristallina, bruciata, lisergica, melodica, grezza, alterata, quello che Polly Jane fa da anni, che realizzó nel successivo album straordinario, Mediamente Isterica, che ovviamente il grande pubblico non colse nemmeno con i sottotitoli.

L’avranno presa a schiaffi e dopo l'ecatombe del mio picco personale della sua discografia se ne uscí con uno scialbo Stato di Necessità, 300.000 scontrini alle casse, con archi dettati dall’alto e la scala di do in tutte le salse conosciute. Una eco del pensiero sputtanante che correva di quei tempi, e Carmen scomparse dalle mie priorità.

Ma nel 1996 Due Parole è stato un gioiello pop. E l’ho probabilmente sempre piu’ amato degli altri, anche se ho consumato la mia copia di Confusa e Felice che mi è stata trafugata da Alessio, e che si trova adesso a Treviso e che non rivedrò mai piu’, e che ho appena finito di collegare in cima a tutti Mediamente Isterica.
Riascoltarlo adesso apre delle porte spaventosamente rimaste blindate per decenni: naif, melodico, dolce, ingenuo nei testi e nelle musiche, forzo la mano, college.
Testi da diari della scuola, quello che scriveva qualcuno sull’ultima Repubblica cartacea che ho letto sui diari di scuola, ché erano di tutti, tutti scrivevamo sul diario degli altri, e su quello delle ragazze solo alcune pagine erano criptate. Era la crescita congiunta, la scoperta dell'altro. E credo che la mia scrittura fosse piu’ raffinata, piu’ descrittiva, piu’ fantasiosa e creativa di quella di adesso. Si viveva di sogni, ora si vive di pane a tavola e ricordi profondi e per questo vicini. La praticità, è chi mi ha ucciso.

Ma senza divagare, di quell’album ne apprezzo la semplicità (e la Semplicità, il pezzo), l’inesperienza clamorosa del cantato della Consoli, fragile, piccola ma desiderosa di cambiare registro, voleva un cuore cane, odiava le malelingue (quel gioiellino veramente liceale di lingua a sonagli, che solo per l’ingenuità vale il prezzo del biglietto), eppure piangeva al dare un consiglio che suonava come un la stonato, o nascondeva le lacrime quanto le capitava un amore di plastica, o ne sognava uno eterno, fino all’ultimo.
Un album ben prodotto, ben suonato, immediato, diretto, senza troppi pensieri sui target da colpire, valse la pena per noi preadolescenti come per quelli un po’ piu’ anzianotti di lei, che ai tempi ne aveva 21, venuto fuori a mó di presentazione su MTV con la scala allegrotta di Amore di Plastica, prima di un boom che si voleva accennare.

Eppure io dei pezzi di quest’album, un discreto puzzle, appunto, apprezzo molto quel che viene a seguire il singolone suddetto, canzone d'apertura. La tristezza di Sulla Mia Pelle, con sussurri da fata della Consoli, le magre consolazioni di Posso essere felice (rileggendo i miei diari, guarda un po’…), l’amore purissimo del cielo immenso di Quello che Sento hanno avuto sicuramente un valore altissimo nei miei ascolti negli anni successivi. Se è questo, crescere musicalmente, imparare ad ascoltare tutto, dal punto di vista del pop piu’ easy di tutti devo dire che non mi dispiace per niente che quest’album di Carmen Consoli abbia contribuito alla mia formazione.

Eppure l’endemia del mio essere è dovuta venire fuori lo stesso.
Ho ripreso il disco, non troppo per caso, è un album triste, in fondo, e mi andava una serata pop per questo primo venerdì d’autunno vero, ché ancora si puo’ dire che nemmeno una foglia è caduta, e dopo decenni ne ho aperto il booklet.
Credo sia stata la seconda volta da quando ce l’ho, cioè appunto da oltre dieci anni.
E ho scoperto che mica la Consoli ci suonava la parte elettrica.
E ho scoperto che il produttore e arrangiatore è anche lo straordinario e tristemente scomparso Francesco Virlinzi, l’uomo di punta della musica a Catania, non certo a Battipaglia, a fine Novembre del 2000 a soli 43 anni.

Una cosa che invece già sapevo è che la mia canzone preferita dell’album è Non ti ho mai chiesto. Di Virlinzi-Consoli-Rinaldi. Mica farina del sacco della cantantessa.
Il numero 6 di dodici brani. Il punto centrale, il riempitivo per eccellenza. Che mettiamo qua? Boh, avevo scritto un testo. Improvvisaci una melodia. Carmen, che ne dici? Perfetta, solo ci aggiungerei quel suono lì che si provava l'altro ieri ed è fatta, passiamo alle cose serie adesso. Con un inizio trascinato, una melodia triste, le parole ingenue e l’insostenibile peso di quegli anni dell’incomunicabilità. Chi l’avrebbe detto che sarei arrivato quasi a coltivarla.

Ascoltavo Carmen Consoli, e me ne stavo allontanando. Anche inconsapevolmente, sceglievo la strada diversa al suono principe, alla struttura globale del disco. Crescendo su tre accordi ripetuti, schitarrata ritmica, batteria azzardata, avrei scelto il piu’ complicato, quello in secondo piano, il barattolo coperto sullo scaffale, la marmellata, quella che stava sempre zitta, la parte piu’ sfigata della penisola iberica.

Preferivo Luigi a Mario.
E preferisco rimanere in quest’angolo.