As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

domenica, novembre 26, 2006

Erano i Faith no More, idiota


Non ci voleva molto, ma non mi veniva in mente.

Mike Patton è una delle migliori voci della Storia della Musica.
E ci siamo incontrati un milione di volte (1998, ad esempio), e non l'ho mai approfondito come meriterebbe.
E una serie di cose che ricorderò solo a leggere 'ste tre parole.

Diggin' the Grave.

venerdì, novembre 24, 2006

Esercizi di sopportazione della mediocrità circostante


Candido Cannavò vuole finire al gabbio.
La Gazzettona, compagna fidata di sottobanchi liceali, si è fissata da un po' a trattare argomenti che sempre meno concernono le attività sportive e sempre più attualità e guerrenelgolfopersico.

Candidone, da sempre fulgido esempio di moralismo, bacchettonismo, odio contro la Reggina e servilismo al potere, ligio segue la nuova linea editoriale e racconta di reportage dal carcere, di cani Ice salvati dall'oblio, di collaborazioni con l'Ucciardone e San Vittore.
In periodo di indulto (vergognoso, tra l'altro, e non per le ragioni della legge in sè: non si può distinguere tra reati di mafia-non mafia, persino l'ultima delle matricole dell'ultima Giurisprudenza d'Italia sa che, individuata la quantità di pena, se essa è paritetica ad un'altra non ha grossa importanza la natura del reato: la quantità di devianza, a questo punto, deve interessare, e a paritò di devianza qualsiasi altra valutazione è discriminativa; indulto sì, ben venga, ma non in questi termini: o tutti o nessuno) gli unici che vogliono andare al gabbio sono Candidone e Maurizio il grande diseducatore Costanzo, che di fronte al delicato profumo del danaro non ha esitato a piazzare le telecamere + televendita nelle celle dei poveri sventurati con tanto di sottotitoli e intrecci da fiction-reality, roba da mandarlo veramente in galera e gettare la chiave.

E allora mandateli al gabbio per davvero, questi diseducatori, invece di condannanare quella povera ragazza che si è permessa di disonorare i morti di Nassirya.
Come se fare (o peggio, partecipare) ad una guerra fosse un onore.
Come se esprimere la propria opinione fosse un reato.

O la storia del bullismo: non si parla d'altro, dalla tv direttamente a qualsiasi luogo pubblico d'Italia.
Ma a scuola ci siete mai andati?
Io ricordo alle elementari (e medie, e forse pure oltre) che ci massacravamo, ma veramente, ci massacravamo e le maestre ci massacravano, eppure siamo cresciuti tutti ggiovani e forti e svegli.
L'oversize di tutela ai ragazzini li renderà solo più insicuri.

Questo per dire l'album della Gainsbourg (5.55) non è nulla di speciale.
Quel minimo che in fondo ti aspetti da figlia di cotanto padre.
Numerum omen.

Vivere


-una notte di novembre;
-il cappotto nero alzato fino agli zigomi;
-un racconto che ricorda l'adolescenza;
-la pancia piena;
-il freddo pungente dopo la pioggia improvvisa di stamattina;
-l'oscurità;
-la solitudine;
-i polmoni spaccati;
-il fegato piegato dal dolore;
-il sapore amaro in bocca;
-Disintegration dei Cure.

Tutto insieme in un unico istante.

giovedì, novembre 23, 2006

Il peso insostenibile dell'Occidente burocratico


Per la prima volta nella mia vita, oggi, ho rimpianto l'inesistenza del mostro illustrato alla destra delle mie vacue parole.

L'opposizione a tale pseudo- opera pseudo- architettonica, da mia parte, non è dovuta (unicamente) ad una questione estetica (ben fondata), nè ad una questione ambientale (più che fondata, ma tra abbandono, incuria, incendi, scorie nucleari l'ambiente qui è più malsano della City all'ora di punta di Monday Morning), e neppure a variopinti ricordi di lupe, fate morgane, tramonti rosa o albe arancioni (anch'essi ben esistenti), ma sostanzialmente alla presunta inutilità del colosso in ferracciaio: 120 giorni all'anno per 100 anni di possibile apertura.

No, perchè poi, passato dall'altra parte, ti scontri con:
traffico impazzito, fila in segreteria (disabituato, forse, ma mi sembra uno degli inferni possibili -direbbe Sclavi) -avvocato Agnelli Umberto Agnelli Susanna Agnelli Monti Pirelli dribbla Causio che passa a Tardelli Musiello Antognoni Zaccarelli, sono trent'anni e siamo sempre qua, smog, sguardi (quando capita) indifferenti, pioggia improvvisa, mendicanti, vetrine luccicanti, antipatia, battutacce, minacce di morte tra individui, velocità, velocità, velocità che in fondo fare 500 metri a piedi per sentirti dire cose che già sai -"per adesso è così ma domani chissà"; "mi scusi, io, e pure lei, non sappiamo se siam vivi tra 10 minuti"; "e quindi che vuole sapere?"; "come stanno le cose ora"; pago, per questo- e che dovrebbero farti felice ti innervosiscono profondamente.

E quindi, se almeno mi risparmiassero l'attesa di 2 ore per prendere un traghetto e chiedere un certificato, non farebbe poi male.
Considerato poi che esiste pure lo sciacallo, che traghetta ogni 15 minuti con una navetta turistica riadattata alla modica cifra di 9 euri e 50 sola andata.
Manco i clandestini.
Considerata la mulattiera che collega Reggio Calabria a Salerno.
330 chilometri di monocorsia.

Ore 7:00 - ore 13:39 andata e ritorno per un certificato di laurea.
Ché a tirarlo da internet è fantascienza da Ridley Scott.

Mi fossi iscritto a Napoli avrei fatto prima (e meglio).
Roba da espatriare.
Subito.

giovedì, novembre 16, 2006

Il giorno che Humpty Dumpty decise di abbandonare la cameretta


Nuovo album per Humpty Dumpty, Eine traurige Welt für Scheiße Leute.

Humpty Dumpty lo seguo da tantissimo, ormai, e non nascondo che sia uno dei miei artisti preferiti in assoluto.
Avevo parlato, per Be no more time (seguito in modo fedele da L'EP di Humpty Dumpty di quest'anno), delle sue atmosfere, del disco di una vita, di meno elettronica e minori asperità in generale. L'avevo definito una summa.
E forse proprio l'esigenza di non cristallizarsi ha portato HD ad azzardare un passaggio che definirei destabilizzante, inaspettato.
Premetto che per me HD è un erede diretto di Syd Barret, che approda spesso alle arie meno opprimenti di Ian Curtis.
Questo disco è, invece, una miscela di differenti influenze e citazioni: Colite Spastica apre con un'atmosfera completamente twee da pop scandinavo, quasi; e già sono sorpreso, rimango di sasso, seppure Tutto questo, direttamente seguente, sia assolutamente un pezzo dei Sigue Sigue Sputnik, con citazioni elettroniche '80 fortissime, che si conclude con un piano dissonante come nella migliore tradizione indie-dark, un omaggio (voluto?) a quel capolavoro assoluto che risponde al nome di Forever dei Cranes.

Su questa base nasce La mia love story, caratterizzata dal classicissimo basso compulsivo alla Dumpty, lisergica come ai bei tempi, mentre la quarta, Una sera, fa apparire l'HD che non ti aspetti: delicato, poco stonato (lui che dello stonare fa quasi un marchio di fabbrica), cantautorale e con un finale di testo di livello straordinario:
e non ti accorgi
neanche un po’
che casa nostra
è una tomba etrusca.
Vengono le amiche,
fai venire gli amici
e, tu mano alle foto,
parli di noi.

Vale da sola il prezzo del biglietto, ma sempre meno di Amigdala e Yin, finalmente dark, finalmente depresse, finalmente fatalistiche e finalistiche, figlie degli album precedenti, oscure, chiuse, testi criptici, sepolcrali.
Amigdala sembra un affresco di paesaggi post nucleari, con un basso secco e batteria “marciata”, tastierine nerissime alla Bauhaus; come Yin, ancora più nera, se possibile, meno cantata, più oscura, chitarra essenziale con un tocco di eco.
Canzoni dell’anno.
E il resto?
Sul resto Humpty si perde, tra citazioni tremendamente Ferrettiane (odiatissimo, presso queste sponde), ancora echi pop, una chiusura un po’ degna di nota soltanto grazie ad un testo spettacolare.

Ci siamo chiesti che cosa abbia mai ascoltato il nostro HD quest’anno. Ci siamo chiesti se Syd Barrett sia morto anche dentro di sé. Ci siamo chiesti se Humpty stia uscendo dalla cameretta.
Il disco merita. E’ un’operetta degna, come al solito, perchè viene comunque da un musicista di qualità, che oltre a scrivere testi (tutti in italiano, scelta che io non giudico in quanto la ritengo ininfluente sulla bontà -e genere- della sua musica; anzi, meglio sui pezzi ‘cantautorali’) stupendi, riesce a non essere mai banale, a dimostrare il suo eclettismo musicale (grande bassista, voce suadente stonante –riesce a stonare, Humpty, facendolo di proposito e non dandolo a vedere, preciso e azzeccato uso delle tastiere e degli effetti), a rapire al primo ascolto.
La miscellanea di suoni, poi, crea una meraviglia di richiami, lega gli antipodi, fa viaggiare tra mille paesaggi con poche note.

Ma Humpty è cambiato, e noi, che lo guardavamo come il nostro piccolo Syd rimaniamo straniati di fronte alla perdita della sua vena lisergica: che rimane, riaffiora qua e là, ma è meno tormentata delle opere precedenti, come gli stessi testi rivelano; l’ironia caustica c’è: il problema è che stavolta si vede.
Il dischetto va ben oltre la sufficienza, finirà alto nelle mie classifiche, ma non è più la tazza di tè che golosamente ingurgitavo tutta d’un fiato.
Piacerà a più gente, conquisterà nuovi ascoltatori, sarà osannato.
Ma, apparentemente, è privo di una linea guida; se Be no More Time era figlio di due opere diverse tra loro, ma compatte all’interno e fedeli a sé stesse nei suoni, Eine traurige Welt für Scheiße Leute è troppo altalenante.

Resta da vedere cosa verrà dopo, quale strada Humpty vuole percorrere.
Col mio sette e mezzo, che non è di stima e nemmeno d'amicizia, ma d'una severità che mette paura perfino a me stesso, gli auguro, ancora una volta, l'enorme fortuna che merita.
E che, con questo disco, non ha smesso di meritare.

venerdì, novembre 10, 2006

Il broncio di Martina



Dea Martina è caduta male agli US Open.
Nessuno se lo aspettava, nemmeno lei stessa, eroina dagli occhi tristi, ritornata, come sappiamo, dopo un lungo periodo di astinenza tennistica a calcare quei campi che sono suoi, che domina e che disegna ruotando la racchetta che tiene in mano.
La voglia di far bene c'era, caspita se c'era.
Misurarsi con sè stessa, prima che con le grandi giocatrici di oggi.
Entra al master da numero 8, da ultima delle classificate, da fanalino di coda.
Costretti, da un malvagio sorteggio, a giocare tre matches in tre giorni.

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E il sorteggio è veramente malvagio: Justine Henin, Nadia Petrova, Amelie Mauresmo.
Due numeri uno, e una gran giocatrice di volo sul cemento di Madrid: una dopo l'altra, da martedì a giovedì.
Eliminata in partenza, dicono, e sembra che Dea non faccia niente per negare il pronostico nel primo match contro sua maestà Justina: la belga le impone subito un 6-2, e Martina inizia a mostrare il broncio. Broncio che la porta a vincere il set successivo, tra l'incredulità dei presenti e un popolo in tribuna che la ama veramente.
7-6, prima di venire travolti nell'ultimo set per 6-1.
Ma contro Justine può bastare.

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Il giorno dopo, nemmeno il tempo di rifiatare, le tocca la Petrova.
La Petrova è una vacca infausta (cit. - Gigio, te la rubo, tenila) di una scorrettezza minacciosa.
Prima di entrare in campo, si sprecano i pronostici anti-Martina. Dea è stanca, Dea nulla potrà contro quell'energumena brutta da metter paura, Dea ha avuto ieri la Henin mentre l'infausta ha spiaccicato Amelia in due set con un, impressionante, doppio 6-2.
Woodcock chiede a Martina che pensa, nel sottopassaggio.
Martina apre la boccuccia delicata e strabuzza gli occhioni verdi: "l'importante è che io sia qui, a giocare".
A giocare.
Dea Martina non ne poteva più, aveva abbandonato, ricordate? Di fronte a quel tennis bruto di due mascoline americane che a costo di impoverire una nobilissima disciplina avevano abolito palle corte e servizi carichi di effetto.
Ora che è tornata, ora che ha finito l'intervista e si dirige lentamente verso il campo, in quello spazio infinito, Martina cosa chiede a sé stessa, mentre l'infausta inizia a sorridere, sicura di quello che ha, sicura di dover fare un boccone di quella svizzerotta col passato glorioso?

Se lo sta ancora chiedendo, mentre serve sul 3-0 con due break vinti al primo set.
Martina domina. Martina lobba, Martina va a rete, Martina chiede un "Yellow G*torade", Martina smorza, Martina irride la Petrova infausta.
Irride e quella ride, quasi a farne beffe: vedrai, sembra dire, ora comincio a giocare e ti mangio.
Nel frattempo, siamo sul 6-4 Hingis.

Nel secondo set, Martina ha un calo: dopo aver giocato due ore ad alto livello contro la regina del circuito, ci può stare. Quella fa la gradassa: ride, la stupida, fa la spaccona, saltella, chiede 'challenge' ogni due punti.
Ci può stare, il secondo set lo vince l'infausta, 6-3.

Peccato che la vacca non abbia fatto i conti col broncio di Martina.
Martina s'imbroncia, al terzo set, tira fuori i denti, comincia a servire come prima, sceglie di comandare il gioco, sposta l'infausta, la porta avanti e indietro, le fa i pallonetti e i cross di diritto, gira la manina sinistra e piazza rovesci.
Quella ride.
Quella ride e Dea accende gli occhioni colore del mare; precisa, l'incantevole principessa danza su quel cemento rosa rubando l'attenzione di tutti i presenti: scatena applausi, urla d'affetto e di gioia, e i gridolini di quell'infausta si perdono come echi lontane di angosce superate.
Martina chiude 6-3, quella là non ride più.
Si avvicina Woodcock, e la mano di Martina sta tremando. Il pubblico la osanna ancora, lei farfuglia qualcosa di gioia e sorrisi; poi inizia a commuoversi, Martina.
Quegli occhi, tornati grigi, si velano di lacrime.
"Sono qui", dice.
Destinata ad essere regina, senti che sei tornata.
Cosciente di non aver mai smesso di essere Dea.

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Era passata da poco la mezzanotte, quando Martina aveva abbandonato il campo in seguito allo schiaffeggiamento dell'infausta vacca.
Dopo nemmeno venti ore, ci attende al varco Amelia.
Amelia, ultimo ostacolo del round robin, che conosciamo per la sua dolcezza e la sua classe, che non discutiamo, che forse è la più talentuosa di tutte e la più forte. Merita il numero uno.
Martina è stanca. Anche le dee possono fermarsi, anche le dee possono tirare il fiato.

Il G*torade giallo lo chiede subito.
Primo set, break della francese, controbreak di Martina, controbreak di Amelia, controbreak Hingis.
Servizio Hingis, break Hingis.
Martina Hingis leads 6-3, dopo un set.

In questa fase Martina sta dando spettacolo allo stato puro: saltella, nella sua maestosa mise -bianca scollata maglia, gonnellino con spacco abbinato- tra le nemesi di Amelia e le sue paturnie; tra una giudice di linea che sbaglia tutto e un'arbitra poco sveglia; tra raccattapalle fotomodelli lenti in modo indisponente e lo sguardo di un pubblico in delirio.
Lob, smorzate, servizi lenti ma agli incroci delle righe.
Grinta, dolcezza, magia, leggiadra come la dea che è.
E' stanca, Martina, ma non lo dà a vedere, almeno finchè Amelia non prende a picchiare.

Amelia picchia e infila 9 giochi consecutivi. Nove.
6-1 al secondo, 5-1 al terzo.
Durante questa fase, Martina non è più in campo. E' stanca, ma non sopporta che le rubino la scena; non è giusto, non è stato scritto così, nel libro del destino.
Martina si commuove di nuovo, e stavolta di rabbia.
Le gambe non rispondono, eppure aveva corso tanto: che ti stai chiedendo, Martina? Forse quello US Open non è stato un caso, forse dovevo rimanere a giocare coi cavalli e a commentare le imprese delle altre, forse in questi quattro anni non ho pensato abbastanza, forse...
Corregge lo spagnolo dell'arbitra, che le ruba un punto, chiede challenge a manetta sbagliando sempre, il pubblico la invoca a gran voce, e poi non ci crede più, fino a far scemare il suo apporto.
Amelia sta facendo quello che vuole, e Martina si imbroncia sempre di più.
La mano destra fa gesti di delusione, il capo è chino. Guarda quel prato rosa, Martina, è di un colore simile a quella terra che calcavi a 4 anni con la racchettina e mamma che insisteva nel farti giocare.
E poi a 17 anni, e poi il verde di Wimbledon, e poi la gloria, e poi tu, in cima al mondo, e al resto le briciole, divertendo, diventando protagonista, diventando regina.
Unica, sola, Dea, padrona del mondo.
E poi il buio, quelle due colosse che ti fanno male, il ritiro, i cavalli, i flirt e le depressioni.
Mille domande.

Ma la risposta è lì, Martina: un lampo, d'improvviso; è nel tennis, nella racchetta, nella gioia di esserci, di stare su quel campo, di farti ammirare e lodare.
Luce d'altro mondo negli occhi, 5-2, 5-3, 5-4 servizio Mauresmo.
40-15 Hingis. A un passo dall'impattare quello che sembrava compromesso, dall'impattare quell'ennesimo segnale, pensavi, che sembrava dire che questo sport non fa più per te.
Amelia non è una fessa: ritorna in sè e fa 40 pari.
Serve, ma Martina non concede nulla, annulla 4 match points. Senza più le gambe, stremata, cicca l'ultimo diritto.
E' finita.

Mentre abbandona il campo, sorridendo di nuovo, si prende un'infinita standing ovation: Amelia ha vinto, ma è Martina ad uscire a testa alta.
Delicata, piccola, con i segni del destino in quelle mani fragili, che tremano ancora di gioia.
Le domande restano, Martina.
E le risposte le sta dando, giorno dopo giorno, il destino.

mercoledì, novembre 08, 2006

Borsino musicale


L'omonimo degli Electric President è pop nitido, senza infamia e senza lode, esattamente come Grandaddy e the Impossible Shapes (Tum), che mi hanno lasciato ben poco, se non qualche pezzo che durerà un battito di ciglia.
Josh Rouse col suo 9 ci dà dentro di folk come sempre, aggiungendo nulla a quello che finora ha detto, delicatamente fedele a sè stesso come i Le Sport (ex Ultrasport, ex Eurosport, vecchi amici), figli di un'elettronica della quale onestamente ho piene le orecchie.

Scopro finalmente che esiste un gruppo cover degli Advantage Lucy, i Paper Moon che, con il loro dolcissimo "Broken hearts break faster every day", si candidano a posti alti nella classifica di fine anno, mentre una nota di lode va a "Black Swan Days" degli Scarboro Acquarium Club, tra twee e folk, ma sempre meno convincenti nel nuovo, maestoso album di Beth Orthon: dopo quattro anni di silenzio, "Comfort of Strangers" è un inno al più alto cantautorato folk arricchito da un pianoforte dolcissimo e struggente che accompagna la sua magnifica voce. Cinquestelle senza esitazioni.

Gli Archive tornano con "Lights", definiti da qualcuno trip hop deviato, fanno accademia, esattamente come l'electro-noise dei Broadcast. Ok, ma non è il mio genere, e a differenza della Orton, appunto, non mi conquistano per niente. Ma non è una novità.
Sondre Lerche è orripilante. Veramente mediocre, chissà cosa gli è balzato in testa. L'album vecchio, Two way monologue, era essenziale, chitarristicamente ineccepibile, melodico, ascoltabile. Riempie invece Duper Sessions (il nuovo) di ghirigori e inutilità orchestrali.
Onestamente, se la poteva proprio risparmiare, una caduta fragorosa. Lo odio quasi quanto Marlon in nip/tuck.

Gli Amusement Park on Fire, invece, sono ormai giunti alla piena maturità. Se si parla di rock, quest'anno, non si può prescindere da loro: "Out of the Angeles" è duro, triste, chiuso, melodico e un po' pop, a tratti persino noise. E' un anno di miscugli questo, con poca innovatività, e gli Amusement si discostano finalmente da quel che è diventato idealtipo Kaiser Chief, Raveonettes, Franz Ferdinand e compagnia copiando (autocit.); boccata d'ossigeno nell'ovattata stanza della ripetitività rock.

E infatti passo senza aggiungere altro agli Album Leaf e al loro drammatico "Into the Blue again": post melodico e malinconico.
Sempre meno malinconico, però, di quel genio immenso di Maximilian Hecker. "I'll be a virgin, I'll be a Mountain" è meno infinitamente disperato di "Lady Sleeps" dell'anno scorso, che troppo ingiustamente è stato da tutti disprezzato, quando da queste parti è finito assolutamente in top ten come meritava senza discussioni, e come finirà quest'album.
Era una corsa, per Maximilian, tradito dalle vendite del passato disgraziato 2005, a creare qualcosa di nuovo e non banale, e ci è perfettamente riuscito: le atmosfere sono nere ma meno ineluttabili, e diverse canzoni saranno masterpieces.
Che almeno questo abbia la fortuna che merita: da queste parti il buon Max non lo abbandoneremo mai.

In tema di miscugli, i Blochin si fanno ascoltare, con il loro "A smell of Vinyl", brit forse troppo easy quasi twee, mentre sono del tutto affascinato dagli Charade: un bell'album che svaria su tutto il fronte del pop e ci offre di tutto; colpi di tacco, rovesci a una mano, carne, pesce, dessert, frutta, nero e bianco. Opera d'un'accademia devastante, brilla di luce propria, s'imporrà nel tempo.
Niente di nuovo, obiettate pure: ma così ascoltabile. E' qualcosa della quale non si può fare a meno, è pane quotidiano. E' "A Real Life Drama".
Straordinario.

Com'è straordinario l'addio di una delle maggiori band scozzesi della storia degli ultimi dieci anni: gli Arab Strap si sciolgono, e fanno ciao con la mano con "Ten years of tears", con i loro pezzi autunnali; non fanno un greatest hits, bisogna avere stile anche nei momenti peggiori, gli Arab Strap lo sanno bene, e la traccia finale di un disco di rivisitazioni mai banali, "There is no ending" è evocativa non solo nel titolo.
Quello che hanno composto, scritto, prodotto rimarrà nella storia, sarà raccolto, farà scuola.
Onore a loro.

L'amico Humpty Dumpty merita un post, che scriverò quando avrò ascolato il nuovo album.

Mi hanno contattato su myspace gli irlandesi Butterfly Explosion, figli di questo nuovo shoegaze che sta finalmente sviluppandosi come merita; ognuno ci mette del suo, e la scena è più viva che mai, e per noi cresciuti quando i Cocteau Twins erano già in fase sperimentale (vi stavate quasi illudendo che sarei riuscito a scriver eun post di musica senza nominarli, vero?) è una vera pacchia.
Meno dark del solito, un po' noise e melodici il giusto: da seguire.

Chiudo con l'immagine che vedete sopra.
Ben Gibbard è il mio fottutissimo idolo.
Ha coverizzato Avril, ridendo e scherzando.
Quello che ascolterete scaricando qui, dà le dimensioni dell'uomo.
Artista del cazzeggio, oltrechè signore incontrastato della musica di questi grigi anni.
Grande Ben.

Nastrone:
Ce Coeur est de Pierre - Acid house Kings
Post Mortem - Humpty Dumpty
Elevate Myself - Grandaddy
Close Your Eyes - Magic Numbers
Don't Come Down Here - Serena Maneesh
The man who... - Josh rouse
Tell no one about tonight - Le Sport
A Tough Decision - The Charade
A Feral Childre - Beth Orton
Into the Sea - Album Leaf
There's no Ending - Arab Strap
Love always happens so Fast - The Charade


Edit., di qualche ora dopo: ho saputo via Gori che gli Oasis tireranno fuori, loro sì, un Greatest Hits.
Doppio album così composto:
La tracklist è questa qui:

DISC 1

1. Rock n Roll Star
2. Some Might Say
3. Talk Tonight
4. Lyla
5. The Importance of Being Idle
6. Wonderwall
7. Slide Away
8. Cigarettes & Alcohol
9. The Masterplan


DISC 2

1. Live Forever
2. Acquiesce
3. Supersonic
4. Half The World Away
5. Go Let It Out
6. Songbird
7. Morning Glory
8. Champagne Supernova
9. Don’t Look Back In Anger

A caldo ho dichiarato: "sono poche le cose che non vedo e che avrei voluto vedere, forse solo cast no shadow al posto di songbird, abbastanza imbarazzante come pezzo, ma siamo veramente al meglio del meglio.
Probabilmente avessi dovuto scegliere io, avrei fatto la stessa cosa.

Importante pure che I am the walrus ancora non ci sia: fin quando non ricorreranno a questo escamotage potranno ancora definirsi vivi.

Sull'opportunità del GH, invece, ho da discutere: a me l'ultimo album è piaciuto proprio tanto, e, a differenza delle mediocrità appena precedenti, è stato pubblicizzato pochissimo.
Non avrei fatto il GH ora."
In ogni caso, sul loro myspace si può guardare il nuovo, acquarellatissimo video di Masterplan.
Mi è piaciuto molto, significativo, colori pallidi spezzano il solito grigio della solita Manchester.

mercoledì, novembre 01, 2006

Le sequenze degli attimi, ovvero l'influenza dei miti sul percorso dell'anima


Mi è capitato tra le mani l'album d(e)i norvegesi Serena Maneesh.
Un disco meraviglioso: valendosi della collaborazione di Steve Albini (!!!), i nostri tirano fuori un indefinito tra noise, rock duro, shoegaze e post.
Album eterogeneo, malinconico, a tratti esagerato e (volutamente?) estemporaneo, improvvisato, voci maschile e femminile ben mixate su qualcosa che addirittura hanno definito My bloody valentine + Sonic Youth (tanto per rendere l'idea).
La traccia 8, Don't come down here, mi sembra riassuma il tutto, iniziando con un arpeggio a delay apertissimo (quasi plagio di una canzone dei Cocteau Twins, con la tizia che copia in modo spudorato la Fraser) che esplode al quarto minuto in una batteria metal grezzissimo più schitarrate come nemmeno i peggiori Sonic Youth (appunto) per poi concludersi in un sibilo liquido.
Assolutamente epocale, una traccia profonda, destinato a rimanere negli anni.

E ora parto con un bel post malinconico, sennò che primo novembre è?

Serena Maneesh, nome alla Amber Smith di recente memoria (non la pornostar,il gruppo ungherese di "Reprint", grande album di inizio anno), che ricorda Maniche, o Joao Moutinho, o ancora prima Attilio Lombardo o gli An Emotional Fish che ieri notte alle quattr'emmezza radio d**jay ha mandato Rain dei Cult e stamattina mi sono svegliato con Rain degli AEF in testa, o Rasha Nesterovic.
Cosa voglio dire?
Voglio dire che ci si affeziona, sin da bambini, a persone/cose, che sono più o meno famose o conosciute, per sentirsi un po’ più vivi, per puntellare una data situazione, un determinato evento, un momento dell’essere meritevole d’essere, un attimo di vita rubato all’oblio del ‘per sempre’, oblio del pre e post ‘vita’.
Mi veniva, ieri notte, da pensare a quanto tempo spreco nel non vivere alcuni momenti del mio giorno. Certo, sempre meglio del popolo che guarda la d*******i e balla il latinoamericazzo per gran parte del tempo (oh, parte un’altra considerazione: ormai queste sono ufficialmente le droghe sociali del duemila italiano, ma scopro l’acqua calda), ma oggettivamente situare ogni secondo del mio essere è impresa assai ardua, e non credo che sia l’unico a non compierla: il bello di Nesterovic, di Jerry Fish, di un gruppo abbastanza scarsino e senza nessuna possibilità di influenza nel percorso dello sviluppo eterno (? parolone) della musica al quale mi sarò affezionato -anta volte è che appare così, improvvisamente, creando un’affezione innaturale ed interiore, incontrollata, sin dalla sua ‘prima visione’.
E sono sempre più convinto, dell’oblio di cui sopra: c’è stato un attimo in cui mi sono sentito vivo, dopo molto tempo, debbo ammetterlo, e qualche attimo dopo (deciso, è chiaro, la mia presenza d’ora in poi la calcolo ad ‘attimi’) è venuta la storia del Q.I. 80 e le sottili differenze di crescita personale, famiglia, educazione, luogo di nascita e sviluppo.
Manco stessi parlando delle bestie; ma, in fondo, altro non siamo che bestie un po’ razionali, e la storia umana non è che uno sviluppo della razionalità (sì, della razionalità, ché razionale è pure l’irrazionale – a leggermi, lo ammetto io stesso, sinonimizzo razionalità e logica, ma diciamo che è voluto). Più avanti, magari, ci sarà Q.I. 160 e le sottili differenze.
Mi vedo, tristemente, analista dell’intorno e di me stesso, sempre più di frequente, e non mi dispiace, in fondo, coltivando però un distacco che disegna inutilità su inutilità su inutilità di tutto ciò.
Se non fosse per quegli attimi.
Se non fosse per Nesterovic.

Il quadretto finale propone una figurina panini con gli ‘eroi’ della mia vita immortalati come in una foto di squadra, da sinistra accosciati Ivanisevic, Robert Smith, Martina Hingis, il professore Battaglia... e poi quelli in piedi, tutto in modo molto random, senza cronologie.
Sarebbe bello, da qui a quando mi toccherà, che sulla lapide, al posto della mia foto, piazzassero un'immagine del genere.
La squenza dei miei attimi.


(Alla faccia del provincialotto)