As câmaras da memória

Diario di un(o che continua a confermarsi un) antieroe
Vortici di pensieri disordinati: un italiano che ha anche vissuto a Lisbona, ma non per fare l'er*smus
"La vita per te é solo un pretesto per scrivere a ruota libera" (simon tanner aka humpty dumpty)
"Io lavoro, eri tu quello che faceva cazzate!" (Franca)

martedì, agosto 18, 2009

Addio

Mi stupisco come abbia sempre bisogno di qualcun altro, nella fattispecie il mio migliore amico, per capire cose evidenti. Di me stesso.
Per quale recondita ragione dovrei continuare a raccontarvi i cazzi miei?
Questo blog chiude.
Grazie, a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggerlo.

giovedì, agosto 06, 2009

Apologia di un calabrese atipico


Mi sono ripromesso di non lanciarmi in accuse sperticate sullo stato di paralisi sociale del mio paese (non Paese, quella è un’altra storia, con lo stesso incipit, pero’); dopo anni di osservazione e paragoni mi sento sempre piu’ profondamente convinto che il vero ed unico problema dell’atrofia nella quale l’intera mia regione si trova sia quasi unicamente e solo la totale mancanza di confronto con altre realtà, altre popolazioni, altre culture. Sembra notevolmente assurdo, visto che dalla calabria sono veramente passati tutti i popoli del mondo e questo lembo di terra sia abitato da ormai piu’ di 12000 anni, ma lo stato di arretratezza e il radicato senso di parassitismo, disonestà, immobilismo culturale e chiusura mentale che continua a caratterizzarne gli abitanti mi obbliga a dedicare almeno qualche riga al mio sdegno incontenibile. Qualsiasi sforzo risulta inutile e inconcludente: la mancanza di riflessione anche su fatti evidenti e chiaramente tesi a ledere il bene non solo collettivo ma anche personale dell’individuo è qualcosa di sconfortante e scoraggiante. Con tutta la possibile buona volontà del mondo, non si puo’ sperare di mostrare ad una persona bendata la temperatura dei colori del quadro piu’ variopinto che esista; né si puo’ sperare che chi assume deliberatamente una vista in scala di grigi possa mai capire le sfumature di un dettaglio arcobaleno. Per quanto possano essere spiegate con le parole piu’ coinvolgenti e profonde che un essere umano puo’ trovare. Questa terra va verso l’implosione, si chiude sempre piu’ su sé stessa, e tra cento anni vedo queste case già cadenti finalmente deserte e abbandonate, perché questo è il destino che meritano, che ci siamo scritti con le nostre mani, con le nostre penne, con i nostri inchiostri: la Calabria è morta perché i calabresi hanno permesso che questo succedesse. Perché gli abusi, mafiosi e non, e perpetrati da mafiosi e non, sono passati impuniti e legittimati dal silenzio e dal tacito avallo di tutta la popolazione, e per intere generazioni. Tre anni e otto mesi lontano da qui non hanno fatto che peggiorare le mie prospettive, e lungi da me sputare sulla terra nella quale sono cresciuto e nella quale ho imparato a vivere. Solo, il mio modo di vedere le cose è ormai così distante da questa realtà che non riesco veramente piu’ a farne parte; avrei sperato che la tipica arroganza lisboeta, che ormai dovrei aver fatto propria, mi fosse venuta in soccorso, in queste poche ore di permanenza già deleterie per le mie residue speranze di rinascita calabra, per ignorare solennemente le piccole invidie, i giochi da bambini, la costante sensazione di incompiuto che incombe sulle nostre spalle; e invece no: invece mi sento così profondamente sconfitto e inadeguato che vorrei solo dover scomparire dagli occhi di questa gente, non dover mai piu’ riapparire, affondare in uno di questi vicoli deserti lasciando per sempre ogni traccia di questo dolore profondo che mi sento dentro e che mai riuscirò a cancellare, collassare nell’indifferenza generale insieme a queste case e a queste mura fradice di sconfitte e vergogne e silenzi, travolgere un passato recente inutile e pleonastico, morire come questo paese tremendo e fallimentare.
E tra qualche centinaio d’anni essere dimenticato anche dalle perfette mappe satellitari di google.
La Calabria era una terra bellissima, dirà wikipedia, un deserto di mari e montagne brulle e sterminate, dove si parlava una lingua dall’incedere greco che lasciava trapelare una storia antica nobile e ormai decaduta. Per colpa dei suoi stessi abitanti.
Qualcuno forse racconterà la storia triste e vergognosa della caduta del mio popolo, non saranno i miei figli, ché non ne avrò, per il semplice fatto di sentirmi incapace di essere così sciaguratamente temerario da affidargli questo stesso fardello che mi porto sulle spalle, che per quanto sempre esibirò con orgoglio nel mio accento pianigiano ovunque mi troverò a doverlo difendere, non ha altro colore che quello della nera sconfitta e del grigiore quotidiano dell’abbandono al quale ci siamo consegnati da tempo immemore; sono fiero di essere come sono, sono calabrese e insieme a tutti i miei corregionali sono un eroe a potermelo ancora permettere. Ma non è qui che potrò mai sentirmi felice.

E non mi va veramente di raccontarmi i cazzi miei, stavolta. Da quando sono tornato, poche ore fa, ho solo continuato ad accumulare scatole di rifiuti: libri di scuola, giocattoli della mia infanzia, fumetti dimenticati, collezioni di figurine, persino cd e videocassette. My first Sony, un walkman di almeno ventitré anni fa, l’ho tenuto con me, insieme a poche altre cianfrusaglie: il resto è andato via, perseguendo testardamente in un’attività che ormai va avanti da qualche mese senza alcuna pausa, sopratutto per impedirmi di pensare anche solo per un attimo al passato, al presente, al futuro che mi aspetta.
Sto recidendo ogni radice.

Ogni giorno è novembre e la mia anima non ha mai avuto un cielo così plumbeo: eppure sono in pace, sento un profondo silenzio attorno, sento di non dovere spiegazioni, sento di non dovere piu’ soffrire. Saranno gli ultimi colpi di coda del decennio dei 20 anni: vedo frotte di coetanei correre disperatamente contro il tempo per cancellare la solitudine; io continuo ad abbracciarla, stoicamente, con fierezza, con dignità e con strenua passione. Voglio il mio angolo dentro me stesso, sono stanco delle delusioni degli altri: ho tante cose da vedere e tanti squarci decadenti dei quali innamorarmi da non avere il tempo e la pazienza né tantomeno la necessità di crearmi un tessuto sociale e banale al quale aggrapparmi.
Lasciatemi qui, con i miei sogni banali e ricorrenti, con le mie parole indifferenti a tutto se non a me stesso, ad affondare dentro e collassare insieme e solo a queste stupide e fradice case.

domenica, luglio 12, 2009

Come hai detto?

venerdì, luglio 10, 2009

Il vento




Avevo colpevolmente nutrito inutili dubbi, prontamente smentiti, sul fatto che la Lusitania mi avrebbe regalato, in queste mie ultime ore di permanenza, delle perle delle quali non esiste assolutamente alcuna altra traccia da nessun'altra parte della terra intera.
In questi ultimi tempi, per dire, il telegiornale portoghese continua ad essere una miniera densa di filoni inesauribili di comicità involontaria: il delirio nazionalista portoghese, generato ed alimentato dalla spesa folle di novantaquattro milioni di euro da parte di un club di fútbol spagnolo per assicurarsi l'esclusività dei servizi di un tamarro di dimensioni talmente apocalittiche da imporre l'immediata genuflessione urbi et orbi di fronte alla miriade di fan degli Slayer per anni etichettata come poco adusa ai costumi civili, ché ad un superficiale confronto col madeirense è degna di regnare alla corte di Luigi XVI, mi provoca dei pruriti spaventosi; tale tamarro prende a calci un pallone (e lo prende a calci molto peggio di come lo faceva Boban, ma per non andare troppo lontano, lo prende a calci molto peggio di Lionel Messi) e picchia le donne.

I contagi per influenza dei maiali, o gripe A o H1N1 ammontano ad oggi, otto di luglio dell'anno duemilanove, a 61 annunciati dal governo (su una popolazione di dieci milioni di abitanti, occhio alle percentuali) nella sola area della capitale, e nella maggior parte dei casi si tratta di bambini al di sotto di tre anni infettati negli asili nido; il popolo insorge sdegnosamente contro le multe per divieto di sosta in un'area fabbricabile quando a lato c'è un ampio parcheggio a pagamento (ben 20 centesimi l'ora "perché non ha parcheggiato a 10 metri da qui nelle aree previste?" "Per risparmiare i soldi del parcheggio, no?") o contro un ministro macchiatosi di una colpa indelebile: ha fatto le corna ad un deputato durante una seduta parlamentare (dilettanti: il mio primo ministro le ha fatte ad un pari grado straniero in una foto ufficiale, e non è successo ieri); la mia vicina di casa, ancora stoicamente single (chi se la deve pigliare, brutta come la guerra), ubriaca al bar qui sotto alle sei del pomeriggio, giochi senza frontiere con ascolti bulgari ogni sera alle 20 sul primo canale, indiani di religione indú a difendere l'operato del vaticano e l'eccellenza della qualità di vita dell'europa meridionale, casa vuota, pc bruciato, mari mossi o poco mossi con forte vento da nordest.

L'estate mi sfugge, come mi sfugge il senso di sogni banali, banali come gli oggetti che stavano nella mia camera e che ho consegnato all'oblío, riuscendo, oltre ogni mia aspettativa - presumendo di conoscermi bene - a riempire di effetti personalissimi cinque buste di rifiuti da cinque chilogrammi ciascuna (l'ossessione per il trasloco si riverbera su ogni singolo atto che mi riguarda: sono arrivato a pesare l'orologio dei Pixies - ben 120 grammi - o a rimpiangere il fatto di non aver inserito nello stesso DVD la discografia dei Magnetic Fields con quella dei Louise Attaque risparmiando 20 grammi, perché Merrit poteva rimanerci male, oltre ad angustiare ed agonizzare la vita di quei gloriosi martiri che hanno avuto la sventura epocale di accompagnarmi in questo momento storico) senza battere ciglio, commettendo un freddo, meccanico, cieco, crudele e spietato genocidio di anime che ha del cinico, senza provare nessun rancore, senza sentire nessun rimpianto, senza pentirmi per ogni biglietto d'andata e ritorno da terre incantate, per ogni letterina scambiata con anime solitarie e vagabonde capitate per caso in un angolo seducente e lontano all'estremo ovest del vecchio continente, per ogni ticket d'ingresso ad un cinema che mandava solo film antichi in bianco e nero, per ogni scontrino di valore superiore a 20€ di Super Bock e tremosos in tascas infilate in buchi nascosti al riparo d'un sole che ha arso e che spietatamente continua ad ardere senza pause la pelle di questa città miserabile, bugiarda e sensuale; senza pietà per mostre di cultura brasiliana dai sorrisi abbozzati dietro maglie grigie, per cartoline pubblicitarie demodé, per cubi cinesi dai mille volti, come quelli di chi li ha confezionati, per messaggi dall'ironia scura e rassegnata, per squarci indimenticabili di albe rosso fuoco sul porto fluviale, con le gru che emettono suoni sordi nella notte, tonfi cupi che sembrano i pianti e i lamenti delle vedove dei mori di 1000 anni fa, e che il vento che soffia forte su questo dodicesimo freddo piano continua a trasportare senza pace fino al mio cuore: ho avuto la forza di ascoltarli ancora, ho avuto il coraggio di amarli ancora, ho avuto la passione e la tenacia per udirne ed adorarne il loro suono disperato e lacetante; è lo stesso vento che mi ha condotto fino a loro, è lo stesso vento che adesso mi porta via.

Ed è lo stesso vento che mi rimarrà dentro: come se fosse un'altra ruga su questo viso, come un'altra ombra nei miei occhi, come il silenzio desolato che mi hai insegnato e che ho capito, e al quale affido, chiudendo quest'altra porta dietro le mie spalle, cancellando quest'altra mia orma, soffocando quest'ultimo sospiro, il mio ennesimo e doloroso addio da te, Lisbona.

sabato, giugno 20, 2009

Ah, fossi un decoratore d'interni..., decima e ultima puntata.


"Como é que te chamas?"

"Não digo."

"Eh lá! Os teus pais estavam cheios de fantasia! Nãodigo Santos!? Nãodigo Silva!?"

"Não vou dizer-te como me chamo! Baza!"

"Ó! Estavas a espera do Brad Pitt, não estavas?"




Allontanandomi progressivamente da questa città, noto che nel corso del tempo ho creato piu’ legami con gli oggetti o i luoghi di Lisbona anziché con le persone. Già da qualche tempo era diventata piu’ una scelta deliberata che una casualità piu’ o meno fortunata, e gli ultimi incontri e le ultime notti non hanno fatto altro che drammaticamente confermare la bontà della mia decisione.

La notte di Sant’Antonio, per esempio, è arrivata a seguito di un breve periodo nel quale mi sono ritrovato catapultato di nuovo nel cuore della città antica, che mi ha permesso di riammirarne i colori spenti, gli azulejos, le case accavallate sulla collinetta di Alfama o la spaventosa indolenza portoghese che tarpa le ali alla frenesia che dovrebbe caratterizzare una qualunque capitale del resto del mondo.
Anche se il carattere provinciale di questo posto viene continuamente riaffermato, quando la gente che non vorresti mai piu’ rivedere ti ricapita puntualmente sulla strada a far vacillare un freddo ed artefatto equilibrio che fingi di esserti creato per alimentare, come se ce ne fosse ancora bisogno, una forza d’animo che non smette di spaventarmi per la sua misura inaspettata, e che continua a sorreggermi quando nei rari momenti di lucidità guardo all’immensità di cio’ che sto distruggendo, ma che paradossalmente scompare ogni qualvolta ritorno a straziarmi l’anima e il corpo con un consumo di bevande alcoliche ritornato ai fasti di un tempo. E l’analisi spietata e comparata che ne deriva, praticamente sempre dimostra che di molte persone ne avevo addirittura cancellato il ricordo, nel patetico e vano tentativo, del tutto istintivo- garantisco, di sopprimere anche le sensazioni che erano a loro connesse: Vanessa è riapparsa dal nulla in una viuzza sconosciuta della Bica quando già l’assenzio aveva fatto il suo dovere e lei già non esisteva piu’, nemmeno come ricordo remoto, ed insieme a questa sciagurata i sentimenti di disfatta e la coscienza dell’irrealizzato a lei connessi; avrei potuto accompagnarla, l’ultima volta che lei mi aveva offerto la sua compagnia, sperduto com’ero in un Bairro Alto che mi sommergeva di crudeltà, quella notte; avrei dovuto scegliere un qualcosa di meno interiore, quando mi sorrideva sedendomi di fronte.
E come d’incanto mi sono reso conto, pochi minuti dopo, quando coscientemente, ancora una volta, mi consegnavo, armi e debolezze, all’ennesima inconclusione relazionale, della morale della favola che finora mi avevano raccontato tutti ma che ancora non avevo, stupidamente, colto: se há uma coisa que aprendi com vocês portuguesas, é que a palavra melhor è aquela que não se diz ou aquela que foi dita tarde demais, ossia, se c’è una cosa che le portoghesi mi hanno insegnato, è che la parola migliore è quella che non è stata detta o quella che è stata detta troppo tardi. Piu’ o meno. Persino la traduzione dei sentimenti mi viene difficile, e non so se avrò nostalgia anche di questo: ogni volta che tornerò sarà come rivivere un intero mondo interiore, e non credo sia necessario prendersene oltremodo cura per custodirlo dentro nel migliore dei modi.

Perché anche se troppo spesso la gente mi dà la nausea alla fine ci sono stato in quel cazzo di bar dark del quale tutti parlavano a ballarci addirittura un tributo ai Cure addirittura con la t-shirt blu elettrico dei cranes addirittura con intermezzi Pixies, Pulp, Morrissey, Smashing, come se qualcosa li legasse, maledetti emolusitani incompetenti. Maledetti emo, anzi. E infatti la compagnia era così deludente che ben presto nemmeno la birra mi ha sorretto e ho preso il solito taxi col solito fado col solito giro per la Morais Soares che s’increspa sotto le luci di neon verdi che non saranno mai capaci di illuminarla abbastanza da nasconderne il suo carattere marginale ed infelice: non per niente si conclude miseramente in un cimitero dalle pareti altissime che non esorcizzano la finitudine del suo lungo e incostante incedere.
Lo stesso incostante incedere che ogni giorno il 718, all’alba, mi propina, visto che ho venduto l’auto, i mobili e tutto il resto, per portarmi al lavoro da bravo schiavetto pendolare produttivo: Praça do Chile, Alameda, Saldanha, Campo Pequeno, São Sebastião, Parque Eduardo VII, Amoreiras; mezz’ora di lento stillicidio emozionale: la calçada portuguesa è fatta di ciottoli precari, la luce fioca del sole appena sorto sfila il manto alle case svelandone dettagli che un viaggio in automobile non avrebbe mai potuto mostrarmi; i ragazzini si immergono stravolti da un interesse inspiegabile in letture di geroglifici ancora da interpretare: giuro che l’altro giorno al mio fianco sedeva un giovanotto che leggeva un libro sugli integrali di ventiseiesimo grado sorridendo soddisfatto; i vecchi si raccontano le origini dei soprannomi della gente del proprio quartiere (e dire che Manoel de Oliveira me l’aveva pure suggerito, nella scena inaugurale del suo Principio dell’Incertezza); i tossici guardano stralunati gli altri viaggiatori mentre ascoltano in lettori mp3 avveniristici heavy metal d’annata. È tutto così singolare che mi spiego, anche troppo convincentemente, per quale ragione sto sforzandomi di apporre con violenza rigorosi punti finali ad ogni capitolo: posso perdermi in infinite altalene mentali, in viaggi e pensieri e sogni di racconti di vite degli altri, ma il mio cuore non puo’ sopportare ancora a lungo questa assoluta disgregazione e questo glaciale disadattamento dalla società degli uomini. Non ho voglia di stupori indotti: nulla piu’ mi sorprende e stupisce, a queste latitudini.

Nemmeno il fallimento dell’architettura che avevo in mente per queste righe; volevo creare un ragionamento circolare attorno al nucleo dei miei rimorsi, promettendomi di schivarne la sua presenza e invece ho barcollato fino in fondo, scontrandomi infine col problema dell’unica vera incompiuta di questi lunghi tre anni e otto mesi di portogallo e tramonti iberici arancio vivo: le parole che ci eravamo detti avevamo giurato fossero solo nostre. Avevi promesso che l’avresti plasmato, prima o poi, il nostro mondo, trovando il coraggio di separarti dalla noia colossale alla quale ti aveva costretta la quotidiana presenza dell’ostacolo molto alto, usando le tue stesse parole.
Ho raccolto molti oggetti che parlano di te, in questi mesi freddi e solitari. Li ho messi in fila, li ho collezionati, li ho ordinati per intensità, per cronologia, per valore, li ho catalogati alla bell’e meglio, senza certo darne grande risonanza, senza l’obiettivo di renderli interessanti a chi li osservava, senza logiche di marketing, senza seguire correnti artistiche o almanacchi prefabbricati, ma dandogli il mio sapore e infondendogli pazientemente e quotidianamente la mia essenza, che non sarà nulla di straordinariamente accattivante, ma che dicevi fosse unica e preziosa.
Rimarranno qui, esattamente dove li ho lasciati, esattamente come li hai colpevolmente ignorati, d’improvviso, e li osservo indifferente, ora che non riescono piu’ a parlarmi, quando invece addirittura anche i ciottoli della strada mi si rivolgono ricordandomi eventi o sensazioni, e dei tuoi oggetti non ho nessuna voglia di portarmeli dentro.
Li lascio qui, allora, esattamente dove ho cominciato a raccogliergli. Io sono un mero sognatore, e il mio amore li ha pervasi solo di un disordine confuso: puoi chiedere al tuo decoratore d’interni di sistemarteli, ottimizzando gli spazi e dando risonanza alle varie sfumature del giallo che li caratterizzano. Dubito, pero’, che tutti i suoi sforzi di ardite soluzioni cromatiche riusciranno mai a levare quella patina grigia che lentamente ed inesorabilmente si staglia sui tuoi giorni, e che sottilmente ha violato la tua anima, tradendo la tua essenza, svendendo la nostra diversità, torturando spietatamente il destino della nostra felicità.
Até a próxima vida, pequena perola de olhares profundos.

giovedì, maggio 28, 2009

Il lungo addio


Chi ha una vaga idea di chi io sia al di lá di quattro stronzate scritte su un blog o da qualche altra parte nella net, sa che se ho delle certezze nella vita esse sono la finale della coppa dei campioni e il mese di maggio. Il mese di maggio e la notte della finale della coppa dei campioni del 2009 probabilmente rimarranno per molto tempo dei ricordi indelebili nella mia vita, le decisioni che ho preso negli ultimi due giorni influenzeranno il mio futuro e solo il tempo potrà stabilire se l’ennesima scommessa forte che ho giocato col mio destino ha avuto ragion d’essere o no.
Mi sono dimesso oggi, nella spirale economica peggiore degli ultimi 80 anni, rescindendo un contratto a tempo indeterminato, da un’impresa multinazionale che mi garantiva esplicitamente una carriera luminosa e un futuro garantito in una terra che forse non amo piu’, ma che nulla ha fatto perché io la odiassi. Questo perché il mio cuore, questo inverno, ha deciso così. Perché la mia determinazione e la mia volontà, il mio istinto, mi hanno spinto ancora una volta a cambiare le carte in tavola, quando l’ultima volta che mi han fatto i tarocchi, due anni e 6 mesi fa, in una casa diroccata ai piedi del Bairro Alto, ho estratto il mondo e poco tempo dopo l’ho preso in mano per davvero. Mi sono sentito spesso, in Portogallo, come si sarà sentito Messi ieri sera, un istante dopo che dall’alto del suo metro e 63 ha messo in rete la palla decisiva della finale della coppa dei campioni con un colpo di testa magistrale: non so come ho fatto, ma ce l’ho fatta. Ce l’avevo fatta, ma non era abbastanza.
Lisbona a un certo punto, non so a che punto precisamente, ha cominciato a svuotarmi. Senza stimoli, senza forza per percorrere ad inerzia un cammino facile facile, ho deciso ancora una volta di rigiocarmi tutto. Di ricominciare dall’inizio e di saltare nuovamente nel vuoto. Lascio il Portogallo, sicuramente per sempre in una prospettiva di residenza, lascio quel che è stato, l’amore che ho avuto, l’amore che ho dato, la tristezza e il calore umano di un popolo buono e generoso, le vie strette e il sapore di birre ultra gassate, le amicizie sincere e leali, le sue donne imperfette che tanto mi hanno conturbato, il clima mite, la calma e la lentezza e la pazienza e il silenzio dell’irrimediabilità del fato, del fado cantato agli angoli della baixa, del freddo pungente di Viseu, lo snaturato Algarve, l’ostile Alentejo, il Tejo, il Douro, i gotici squarci di Porto, i mc donald’s di Braga, le mura romane di Evora, la lingua piu’ romantica del mondo, i due anni piu’ intensi e piu’ pieni della mia esistenza, per ritornare a casa. Se esiste ancora una casa, per uno spirito zingaro come il mio, che ancora una volta non è riuscito ad amare pienamente qualcosa o qualcuno, e a un certo punto ha detto basta. Senza una ragione apparente, non me lo so ancora spiegare neanch’io.
Una persona che ha insistito, in tutti questi mesi, ad idealizzarmi, e che comunque presumo mi conosca bene, ha sostenuto che possiedo un innato senso di previsione del pericolo ed è per questa ragione che ho deciso di ritornare indietro anzitempo. Controtempo, anzi. Non credo di avere queste capacità, altrimenti non avrei compiuto determinate scelte in gioventù le cui ripercussioni ancora, non mi sarei dato all’isolazionismo esistenziale, non avrei voltato le spalle a cio’ che tra qualche tempo avrebbe potuto essere stato. La verità è che sono refrattario alla vita comoda, alla ripetitività dell’essere, al continuum dei sentimenti. Sono contrario al bilocale, una moglie, due figli e la speranza che loro siano diversi. Sono contrario alla banalità nella vita, sono contrario alla carriera a tutti i costi, sono contrario alla freddezza dell’essere. Mi mancano la mia famiglia, i miei amici di una vita, il mare caldo e la disgrazia irrimediabile dell’essere quotidianamente calabrese. Prima di reprimere per sempre questi sentimenti e trasformarmi anch’io in un altro uomo macchina, capace solo di obbedire e deresponsabilizzarsi, o di esercitare il mio carisma in giochini di potere subdoli per colmare quello che non dovrei avere avuto nella mia infanzia e che invece ho avuto, prima dunque di tradire la mia infanzia e il mio essere, ci metto una pezza e ritorno al paese senza futuro che è Taurianova, provincia di Reggio Calabria. Perché non ho mai provato invidia per gli altri, non ho mai avuto bisogno di confrontarmi all’ultimo sangue per scoprire di essere diverso, non ho la grinta che deve avere un arrivista perché diventi un professionista del 2000. Non voglio una casa in un palazzo al 40° piano alla Expo o una macchina da 100 milioni di dollari, perché non devo dimostrare niente al mondo. La vita è stata generosissima con me, non vedo perché dovrei odiarla, non vedo perché dovrei avere un istinto predatore a tutti i costi. La carriera non è il mio obiettivo esistenziale, la mia ragione d’essere al mondo. Io sono una persona sensibile che ha smesso di piangere da qualche tempo, purtroppo, che tutto sommato ama le persone con le quali condivide questi anni di vita, e che desidera soltanto essere felice, non so in che modo, forse solo seguendo il mio istinto. Che mi riporta indietro, alla fine di un maggio raramente caldo, stranamente piovoso, rudemente pratico, con una Slovenia amena nel mezzo, un lungo addio dal sapore adolescenziale e una scelta di vita difficile da prendere e ormai irrevocabile, verso un domani che non conosco. Che sarà ancora una volta lontano dal posto nel quale sono cresciuto, ma che mai smetterà di accompagnarmi, e che in fin dei conti mi avrà per sempre, se non fisicamente, almeno nel bisogno interiore irrimediabile di riviverlo continuamente. È forse per la paura di quest’unico legame eterno che la mia anima in pena continuerà sempre a vagare, a viaggiare.
A vivere.

Adeus

La finale di coppa dei campioni merita sempre un post, e io mi ricordo di Basile Boli, Desailly e alain Boksic.
Pero' domani vado a lavorare.
O que vale é que isso não vai durar assim muito.

domenica, aprile 12, 2009

Ah, fossi un decoratore d'interni... #9

Pensavo, di questi tempi, mentre lavavo i piatti, che la maledizione insita nella natura dell’uomo sia probabilmente dovuta alla testarda arroganza che questa specie animale che domina la terra ha di alterare sempre, anche quando non necessario, l’ordine costituito delle cose, svuotandole di significato, privandole della loro bellezza artistica ed insita. E questa oscura e malvagia tendenza si propaga e viene trasmessa di generazione in generazione: immaginate cosa potrebbe succedere se in matematica dichiarassimo che la sequenza di tre numeri, 123, per esempio, abbia lo stesso valore se alterata con 321. Staremmo commettendo un errore in malafede, falsificando un intero sistema, destrutturando un ordine prestabilito ed immutabile di quantità. Allora perché ci impongono, da studenti, di fare la parafrasi di “Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli achei, molte anzitempo all’Orco generose travolse alme d’eroi”? Non è bella così com’è? Non se ne coglie comunque il significato leggendola così com’è stata originalmente redatta? No. No perché ci vogliono abituare sin da piccoli a trasformare le cose così come ci viene piu’ comodo. In maniera tale da presentarle in forma piu’ malleabile, manipolabile, esercitando un delirio di onnipotenza che sta alla base dell’umana incontrovertibile arroganza. E così Solaris di Tarkovskij è stato tagliato di 40 minuti nella versione italiana curata da Dacia Maraini, così picasso è considerato un buon pittore, così l’hip hop è considerato musica, così un tizio 2000 anni fa è risorto dopo essere morto tre giorni prima.
La realtà viene alterata e a tutti piace marciarci su di essa: la juve era innocente ai tempi di moggi, berlusconi è la sola soluzione ai mali del paese, le emissioni di radeon non hanno un cazzo a che fare con l’attività della crosta terrestre, il preservativo favorisce la diffusione dell’AIDS. Potrei dunque esibire il mio cavallo di battaglia, cioè la teoria povera della relatività applicata al soggettivismo di ogni considerazione: oggettivizzare un concetto non è altro che innalzare a oggettivismo un soggettivismo generalizzato. Che non smette di essere soggettivo, ma che permette ad una intera nazione di fare chiacchiere su una tragedia di proporzioni medioevali, e le case agli abruzzesi intanto non gliele restituisce nessuno. Che permette ai nipoti di picasso di essere miliardari mentre io stento ad arrivare a fine mese anche se lavoro tutti i giorni anche a pasquetta 8 ore al giorno quando mi va bene. Ma a che pro? A che pro scrivere quattro righe che non leggerà nessuno di pensieri ovvî che alla fine tutti si ignora per ingannare la paura della morte e costruire tanti castelli di carte che cadranno nell’oblio quando questo nostro mondo si spegnerà per sempre?

Continuiamo a manipolare la realtà, senza sapere, in fondo, nulla di essa. Mi pongo obiettivi anche difficili che senza troppo sforzo e senza avere un reale interesse raggiungo molto rapidamente e facilmente. Deliro anch’io di onnipotenza, ogni volta che scrivo, ogni volta che guardo un film russo dimenticato da tutti, ogni volta che demolisco, quantomeno in me stesso, le convinzioni della maggioranza delle persone con le quali ho avuto in sorte la condivisione di questi miei anni di vita. Cosa che facevo già da bambino, e della quale non penso di essere stufo.

Stufo sono invece di manipolare cio’ che mi sta intorno. Se non avessi alterato la percezione, idealizzandola, di molte persone, probabilmente sarei piu’ felice. Se non avessi avuto la pretesa di fare la parafrasi dell’anima di chi mi è stato vicino, probabilmente avrei ancora quelle persone accanto. Se mi fossi limitato a contemplare e non a tentare di rendere piu’ personale la bellezza aliena, adesso sarei piu’ equilibrato. E non avrei dovuto scappare via, quando il sole cominciava a tramontare, e la notte si annunciava nera e irrisolvibile.

Le parole sono la cosa che piu’ ho amato nella mia vita, per questo spesso mi sono state alleate, e altre volte mi hanno beffardamente tradito. Usarle in un’altra lingua è forse l’esperienza piu’ bella che mi sia mai capitata.
Forse dovrei semplicemente smettere di parafrasarle, in tutte le lingue possibili.

Ho aggiornato, ecco.