"Como é que te chamas?"
"Não digo."
"Eh lá! Os teus pais estavam cheios de fantasia! Nãodigo Santos!? Nãodigo Silva!?"
"Não vou dizer-te como me chamo! Baza!"
"Ó! Estavas a espera do Brad Pitt, não estavas?"
Allontanandomi progressivamente da questa città, noto che nel corso del tempo ho creato piu’ legami con gli oggetti o i luoghi di Lisbona anziché con le persone. Già da qualche tempo era diventata piu’ una scelta deliberata che una casualità piu’ o meno fortunata, e gli ultimi incontri e le ultime notti non hanno fatto altro che drammaticamente confermare la bontà della mia decisione.
La notte di Sant’Antonio, per esempio, è arrivata a seguito di un breve periodo nel quale mi sono ritrovato catapultato di nuovo nel cuore della città antica, che mi ha permesso di riammirarne i colori spenti, gli azulejos, le case accavallate sulla collinetta di Alfama o la spaventosa indolenza portoghese che tarpa le ali alla frenesia che dovrebbe caratterizzare una qualunque capitale del resto del mondo.
Anche se il carattere provinciale di questo posto viene continuamente riaffermato, quando la gente che non vorresti mai piu’ rivedere ti ricapita puntualmente sulla strada a far vacillare un freddo ed artefatto equilibrio che fingi di esserti creato per alimentare, come se ce ne fosse ancora bisogno, una forza d’animo che non smette di spaventarmi per la sua misura inaspettata, e che continua a sorreggermi quando nei rari momenti di lucidità guardo all’immensità di cio’ che sto distruggendo, ma che paradossalmente scompare ogni qualvolta ritorno a straziarmi l’anima e il corpo con un consumo di bevande alcoliche ritornato ai fasti di un tempo. E l’analisi spietata e comparata che ne deriva, praticamente sempre dimostra che di molte persone ne avevo addirittura cancellato il ricordo, nel patetico e vano tentativo, del tutto istintivo- garantisco, di sopprimere anche le sensazioni che erano a loro connesse: Vanessa è riapparsa dal nulla in una viuzza sconosciuta della Bica quando già l’assenzio aveva fatto il suo dovere e lei già non esisteva piu’, nemmeno come ricordo remoto, ed insieme a questa sciagurata i sentimenti di disfatta e la coscienza dell’irrealizzato a lei connessi; avrei potuto accompagnarla, l’ultima volta che lei mi aveva offerto la sua compagnia, sperduto com’ero in un Bairro Alto che mi sommergeva di crudeltà, quella notte; avrei dovuto scegliere un qualcosa di meno interiore, quando mi sorrideva sedendomi di fronte.
E come d’incanto mi sono reso conto, pochi minuti dopo, quando coscientemente, ancora una volta, mi consegnavo, armi e debolezze, all’ennesima inconclusione relazionale, della morale della favola che finora mi avevano raccontato tutti ma che ancora non avevo, stupidamente, colto:
se há uma coisa que aprendi com vocês portuguesas, é que a palavra melhor è aquela que não se diz ou aquela que foi dita tarde demais, ossia, se c’è una cosa che le portoghesi mi hanno insegnato, è che la parola migliore è quella che non è stata detta o quella che è stata detta troppo tardi. Piu’ o meno. Persino la traduzione dei sentimenti mi viene difficile, e non so se avrò nostalgia anche di questo: ogni volta che tornerò sarà come rivivere un intero mondo interiore, e non credo sia necessario prendersene oltremodo cura per custodirlo dentro nel migliore dei modi.
Perché anche se troppo spesso la gente mi dà la nausea alla fine ci sono stato in quel cazzo di bar dark del quale tutti parlavano a ballarci addirittura un tributo ai Cure addirittura con la t-shirt blu elettrico dei cranes addirittura con intermezzi Pixies, Pulp, Morrissey, Smashing, come se qualcosa li legasse, maledetti emolusitani incompetenti. Maledetti emo, anzi. E infatti la compagnia era così deludente che ben presto nemmeno la birra mi ha sorretto e ho preso il solito taxi col solito fado col solito giro per la Morais Soares che s’increspa sotto le luci di neon verdi che non saranno mai capaci di illuminarla abbastanza da nasconderne il suo carattere marginale ed infelice: non per niente si conclude miseramente in un cimitero dalle pareti altissime che non esorcizzano la finitudine del suo lungo e incostante incedere.
Lo stesso incostante incedere che ogni giorno il 718, all’alba, mi propina, visto che ho venduto l’auto, i mobili e tutto il resto, per portarmi al lavoro da bravo schiavetto pendolare produttivo: Praça do Chile, Alameda, Saldanha, Campo Pequeno, São Sebastião, Parque Eduardo VII, Amoreiras; mezz’ora di lento stillicidio emozionale: la calçada portuguesa è fatta di ciottoli precari, la luce fioca del sole appena sorto sfila il manto alle case svelandone dettagli che un viaggio in automobile non avrebbe mai potuto mostrarmi; i ragazzini si immergono stravolti da un interesse inspiegabile in letture di geroglifici ancora da interpretare: giuro che l’altro giorno al mio fianco sedeva un giovanotto che leggeva un libro sugli integrali di ventiseiesimo grado sorridendo soddisfatto; i vecchi si raccontano le origini dei soprannomi della gente del proprio quartiere (e dire che Manoel de Oliveira me l’aveva pure suggerito, nella scena inaugurale del suo Principio dell’Incertezza); i tossici guardano stralunati gli altri viaggiatori mentre ascoltano in lettori mp3 avveniristici heavy metal d’annata. È tutto così singolare che mi spiego, anche troppo convincentemente, per quale ragione sto sforzandomi di apporre con violenza rigorosi punti finali ad ogni capitolo: posso perdermi in infinite altalene mentali, in viaggi e pensieri e sogni di racconti di vite degli altri, ma il mio cuore non puo’ sopportare ancora a lungo questa assoluta disgregazione e questo glaciale disadattamento dalla società degli uomini. Non ho voglia di stupori indotti: nulla piu’ mi sorprende e stupisce, a queste latitudini.
Nemmeno il fallimento dell’architettura che avevo in mente per queste righe; volevo creare un ragionamento circolare attorno al nucleo dei miei rimorsi, promettendomi di schivarne la sua presenza e invece ho barcollato fino in fondo, scontrandomi infine col problema dell’unica vera incompiuta di questi lunghi tre anni e otto mesi di portogallo e tramonti iberici arancio vivo: le parole che ci eravamo detti avevamo giurato fossero solo nostre. Avevi promesso che l’avresti plasmato, prima o poi, il nostro mondo, trovando il coraggio di separarti dalla noia colossale alla quale ti aveva costretta la quotidiana presenza dell’
ostacolo molto alto, usando le tue stesse parole.
Ho raccolto molti oggetti che parlano di te, in questi mesi freddi e solitari. Li ho messi in fila, li ho collezionati, li ho ordinati per intensità, per cronologia, per valore, li ho catalogati alla bell’e meglio, senza certo darne grande risonanza, senza l’obiettivo di renderli interessanti a chi li osservava, senza logiche di marketing, senza seguire correnti artistiche o almanacchi prefabbricati, ma dandogli il mio sapore e infondendogli pazientemente e quotidianamente la mia essenza, che non sarà nulla di straordinariamente accattivante, ma che dicevi fosse unica e preziosa.
Rimarranno qui, esattamente dove li ho lasciati, esattamente come li hai colpevolmente ignorati, d’improvviso, e li osservo indifferente, ora che non riescono piu’ a parlarmi, quando invece addirittura anche i ciottoli della strada mi si rivolgono ricordandomi eventi o sensazioni, e dei tuoi oggetti non ho nessuna voglia di portarmeli dentro.
Li lascio qui, allora, esattamente dove ho cominciato a raccogliergli. Io sono un mero sognatore, e il mio amore li ha pervasi solo di un disordine confuso: puoi chiedere al tuo decoratore d’interni di sistemarteli, ottimizzando gli spazi e dando risonanza alle varie sfumature del giallo che li caratterizzano. Dubito, pero’, che tutti i suoi sforzi di ardite soluzioni cromatiche riusciranno mai a levare quella patina grigia che lentamente ed inesorabilmente si staglia sui tuoi giorni, e che sottilmente ha violato la tua anima, tradendo la tua essenza, svendendo la nostra diversità, torturando spietatamente il destino della nostra felicità.
Até a próxima vida, pequena perola de olhares profundos.