Block blog
La fase altalentante nella quale verso di questi tempi si riflette anche nel blog, visto che sono passato da una fase di logorrea finora mai vista ad un blocco del blogger improvviso al quale rimedierò con brevi commenti tardivi sui concerti che ho visto di questi tempi.
Mi dispiace profondamente, perché per esempio ho visto i Lemonheads al Santiago Alquimista, il locale che -magari qualcuno che mi legge assiduamente sa che secondo me- ha la migliore acustica di Lisbona, e mi sono divertito moltissimo a vedere un Evan Dando ormai col cervello definitivamente bruciato dentro dare il massimo con indosso una maglietta degli iron maiden (che cazzo c’avrà mai a che fare – lui, io avevo quella dei J&MC, visto che il nostro ha suonato con i fratelli Reid piu’ d’una volta, a mia memoria).
Ed anche i Nouvelle Vague con una Melanie Pain straordinaria, frangia, occhioni verdi, voce meravigliosa, pazza come un cavallo, che ha anche presentato un disco solista. Un concertino entusiasmante, molti frizzi e lazzi e sopratutto un’apertura con One Hundred Years che la cantavamo io e la antipaticissima bionda sul palco, a volte fin troppo convinti di sé stessi, con quei balletti e quegli ammiccamenti fra di loro, o con i salti e i balli e l’ambiente da latino americano quasi pernicioso, compensato pero’ dall’eterea voce di Melanie, dalla qualità delle cover, da un pubblico abbastanza coinvolto (coppiette, coppiette, coppiette) ed entusiasta, benché lontano dal fare tutto esaurito alla Praça de Touros di Campo Pequeno, un posto molto evocativo, uno dei rarissimi anelli di congiunzione tra Spagna e Portogallo, ché addirittura l’aria è diversa da un paese all’altro, e la temperatura del colore allegro e festaiolo degli spagnoli al centro della capitale romantica e decadente di un popolo malinconico assume gradazioni inaspettate ed indescrivibili.
E sempre a Campo Pequeno ho visto in stato di trance un meraviglioso concerto dei Sigur Rós, e non è mistero per nessuno che gli islandesi siano tra i campioni della forma che piu’ mi aggrada di fare musica. Jonsi Birgisson, una figura unica, straordinario protagonista: minimali, epici, violenti, dolci e melodici. I Sigur Ros non raggiungeranno mai, nei miei gradi di giudizio, le vette immortali dei Mogwaii, ma il post-rock passa anche da loro, alcuni sprazzi sono puro shoegaze, la chiusura con nove minuti di rumore ininterrotto mi ha lasciato incantato. Concerto finito e io stavo lì, impalato, ipnotizzato ad adorare un suono che avrei sperato non finisse mai.
I SR sono forse meno sperimentali, piu’ minimali dei M, a volte troppo didascalici, easy, anche se le arie pop che hanno inserito nelle ultime registrazioni dal vivo sono state tagliate di netto (grazie a dio). Birgisson è un genio, è piu’ artista, è piu’ personaggio, si cala molto nel ruolo e chiude la prima parte con uno straordinario gioco di luci, una pioggia di coriandoli e un pezzo da standing ovation. Unico appunto, discutibile, la scelta di campionare alcuni arpeggi. Non lo avrei fatto, avrei preferito un’altra chitarra, tipo del gruppo che ha aperto, altri islandesi post rock, i Four qualcosa, tanto mi sono iscritto alla loro niusletta, ma non inficia il giudizio finale, probabilmente irrimediabilmente viziato dall’amore per quel suono magico, glaciale, di inverni infiniti, mondi perduti, bagliori di lande lontane e desolate.
Concerto dell’anno? Concerto dell’anno.
Mi dispiace profondamente, perché per esempio ho visto i Lemonheads al Santiago Alquimista, il locale che -magari qualcuno che mi legge assiduamente sa che secondo me- ha la migliore acustica di Lisbona, e mi sono divertito moltissimo a vedere un Evan Dando ormai col cervello definitivamente bruciato dentro dare il massimo con indosso una maglietta degli iron maiden (che cazzo c’avrà mai a che fare – lui, io avevo quella dei J&MC, visto che il nostro ha suonato con i fratelli Reid piu’ d’una volta, a mia memoria).
Ed anche i Nouvelle Vague con una Melanie Pain straordinaria, frangia, occhioni verdi, voce meravigliosa, pazza come un cavallo, che ha anche presentato un disco solista. Un concertino entusiasmante, molti frizzi e lazzi e sopratutto un’apertura con One Hundred Years che la cantavamo io e la antipaticissima bionda sul palco, a volte fin troppo convinti di sé stessi, con quei balletti e quegli ammiccamenti fra di loro, o con i salti e i balli e l’ambiente da latino americano quasi pernicioso, compensato pero’ dall’eterea voce di Melanie, dalla qualità delle cover, da un pubblico abbastanza coinvolto (coppiette, coppiette, coppiette) ed entusiasta, benché lontano dal fare tutto esaurito alla Praça de Touros di Campo Pequeno, un posto molto evocativo, uno dei rarissimi anelli di congiunzione tra Spagna e Portogallo, ché addirittura l’aria è diversa da un paese all’altro, e la temperatura del colore allegro e festaiolo degli spagnoli al centro della capitale romantica e decadente di un popolo malinconico assume gradazioni inaspettate ed indescrivibili.
E sempre a Campo Pequeno ho visto in stato di trance un meraviglioso concerto dei Sigur Rós, e non è mistero per nessuno che gli islandesi siano tra i campioni della forma che piu’ mi aggrada di fare musica. Jonsi Birgisson, una figura unica, straordinario protagonista: minimali, epici, violenti, dolci e melodici. I Sigur Ros non raggiungeranno mai, nei miei gradi di giudizio, le vette immortali dei Mogwaii, ma il post-rock passa anche da loro, alcuni sprazzi sono puro shoegaze, la chiusura con nove minuti di rumore ininterrotto mi ha lasciato incantato. Concerto finito e io stavo lì, impalato, ipnotizzato ad adorare un suono che avrei sperato non finisse mai.
I SR sono forse meno sperimentali, piu’ minimali dei M, a volte troppo didascalici, easy, anche se le arie pop che hanno inserito nelle ultime registrazioni dal vivo sono state tagliate di netto (grazie a dio). Birgisson è un genio, è piu’ artista, è piu’ personaggio, si cala molto nel ruolo e chiude la prima parte con uno straordinario gioco di luci, una pioggia di coriandoli e un pezzo da standing ovation. Unico appunto, discutibile, la scelta di campionare alcuni arpeggi. Non lo avrei fatto, avrei preferito un’altra chitarra, tipo del gruppo che ha aperto, altri islandesi post rock, i Four qualcosa, tanto mi sono iscritto alla loro niusletta, ma non inficia il giudizio finale, probabilmente irrimediabilmente viziato dall’amore per quel suono magico, glaciale, di inverni infiniti, mondi perduti, bagliori di lande lontane e desolate.
Concerto dell’anno? Concerto dell’anno.